Avanzo solitario per le strade della città, privo di energie, lasciandomi trascinare dalla corrente che scorre in superfice, il sangue del cuore pulsante della metropoli. Stanco, con le spalle curve, mi immetto nelle sue arterie e risalgo le sue ramificazioni, diretto alla mia Pace. Respiro luci artificiali riflesse nelle pozzanghere d’acqua rannicchiate ai lati del marciapiede, che parlano di vita in movimento, di una sola anima in corsa.
Provo a rallentare il passo e vengo staccato con veemenza dalla corrente: all’improvviso non sono più parte della massa, non vengo trascinato, non faccio più parte di Loro. Alcuni visi, nei pochi istanti in cui permangono nella mia vista, mi guardano straniti.
«Chi è costui che, invece di affrettarsi verso casa, si prende il tempo di guardarsi intorno?»
La città ci ignora, poiché noi ignoriamo lei: c’è solo la macchina di fronte a noi, le sue luci rosse frammentate contro il parabrezza opaco d’umidità, oppure la persona che ci passa accanto sfiorandoci il gomito, scalpitando per passare oltre.
Esausto, con la mente febbricitante, decido di declinare la compagnia della massa e mi lascio condurre da me stesso verso la stazione. Sul treno in partenza si spengono le luci: niente più simulacri di Sole ad irradiare il nostro percorso. Immersi nel cigolio della carrozza avvolta dal buio, la città sfila alla mia sinistra e si sveste lentamente, finché l’aperta campagna non resta nuda sotto i miei occhi: un gioco di chiaroscuri, di sfumature d’ombre, di forme mai espresse. Dentro il vagone non scorgo altro che file e file di volti pallidi con gli occhi puntati in basso, rischiarati appena dal bagliore elettrico dei loro telefoni.
Uniformità.