Sento la ghiaia crocchiare sotto le mie suole, mentre avanzo in salita con il vento contrario. Sopra di me capeggia una bella giornata: il cielo è inaspettatamente limpido per una giornata di Febbraio e non un rumore deturpa l’aria. Non lì, a trecento metri sopra la città, a trecento metri verso il cielo, immerso nel chiarore di un sole quasi primaverile che non trova ostacoli sul suo percorso.

Sto risalendo una strada che è sconosciuta ai più, immersa tra le pieghe della mia montagna preferita, quella che per me rimarrà uno degli spazi più sacri che conosca. I cespugli cresciuti disordinatamente, come a voler seguire la tradizione della natura selvaggia e indisciplinata che vive qui in Sicilia, mi sfiorano le braccia e mi accompagnano nell’ascesa. È strano fare questa strada da soli, penso. È la prima volta che mi capita.
Il sentiero termina e svolta verso sinistra, immettendosi nella mia destinazione: i resti dell’antica cava di pietra. Una gola si apre nel ventre della terra, rivelando al cielo l’intimità della roccia che si trova nel suo cuore. I raggi di luce, liquidi, scivolano sull’orlo del cratere frastagliato, immergendosi fino a dove le ombre non li contrastano. Mi trovo dinnanzi a questa mezzaluna scavata sul fianco della terra che si apre di fronte ai miei occhi, circondandomi su tutti i lati. Io rimango fermo dove sono, ad osservare il tempo che si è fermato: i ciuffi d’erba, gli alberi giovani e coraggiosi, i cumuli di macerie sotto le pareti levigate dalle mani di chi ha versato il sudore e la vita in quel luogo sconosciuto e silente, a trecento metri dal mondo. Resto ad abbracciare con lo sguardo quel posto che la natura sta lentamente e con pazienza tentando di riconquistare, colorando di verde ciò che prima era grigio, sotto il canto perenne del vento che trasporta i silenzi più reconditi e sacri.

Questo paesaggio è così ipnotico che mi ridesto dalla sua contemplazione solo qualche minuto dopo, quando il verso di un rapace, credo un falco pellegrino, si diffonde nell’aria, riecheggiando dentro la conca e vibrando contro le rocce. Riprendo a camminare per raggiungere il centro di quel luogo e senza volerlo mi trovo a rievocare gli spettri dei ricordi: cinque ragazzi che avanzavano lungo quella stessa terra ridendo e scherzando, uno scambio di colpi amichevoli con le spade d’allenamento, una lezione di valzer improvvisata dal nulla. Le note di quella musica ancora si spandono, nella mia memoria, dentro quella gola: un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre. Quando mi avvicino di più a quei fantasmi e provo a toccarli, tuttavia, essi evaporano davanti alle mie dita. Mi rendo conto di ciò che significa, di come sia diventato ormai difficile se non impossibile rimettere insieme quei pezzi per ripetere ciò che è stato. Ma forse, a ben pensarci, questo non è affatto necessario. Potrei dipingere nuovi colori sopra questa scena, ma non avrei che la blanda imitazione dell’originale. Forse è meglio semplicemente rimanere a contemplare i vecchi ricordi, senza disturbarli, lasciandoli lì dove sono: sono questi dopotutto i tasselli di ciò che siamo e, a differenza delle opere d’arte, non necessitano di restauro. Perlomeno, non i miei. Perlomeno, non questo.

A trecento metri in mezzo al verde, ma a soli tre passi dal mio cuore. Un-due-tre, un giro e poi di nuovo. Un-due-tre, dentro il tempio nella Terra.

Il tempo passa ed è ora di andare: mi volto e mi allontano, lentamente e con deferenza, verso il sentiero che mi ha condotto fino a qui. Scivolo fuori dalla penombra e mi immergo nuovamente nel sole, fermandomi solo per dare un’ultima occhiata alle mie spalle, alzando gli occhi verso la parete curva e inclinata che ho di fronte.
C’è un vecchio cane, silenzioso, che mi guarda da lassù.

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