Mi trovo in terra straniera, in luoghi inesplorati: una landa di pianure decorata da una cinta di monti innevati. È ancora presto quando ruoto la maniglia e mi dirigo fuori, inspirando una ringiovanente boccata d’aria, fredda e cristallina come acqua di sorgente in un ghiacciaio. Qua fuori, di domenica mattina, si ode unicamente il silenzio interrotto, ogni tanto, dal verso di un uccello nero che insegue la sua compagna. Il luogo dove alloggio è un vecchio monastero riconvertito in appartamenti monolocali: le pareti del chiostro interno sono state pitturate di bianco e una fila di tigli sono stati piantati a formare un giardino rettangolare. Nel pieno dell’autunno, questi alberi danno prova del loro soprannome, “winter orange”, sfoggiando una chioma vigorosamente arancione che contrasta nettamente con i tronchi neri che salgono verso il cielo, affondando le radici nel terreno fangoso. Ad una delle estremità del giardino campeggia la scultura sacra di una Madonna, bianca anch’essa, candida e in pace con ciò che ha intorno.

Avanzo nel silenzio, mentre il luogo rintocca campane d’armonia al centro del mio essere, e mi sposto in direzione degli alberi, prendendo posto tra di essi. Mi ritrovo circondato da una volta di foglie del colore dei limoni che lentamente, sotto l’influsso della stagione, si staccano dalle fronde e planano in aria, danzando intorno a me e alla statua che ho di fronte, prima di depositarsi a terra in un letto che ricopre interamente la pavimentazione del chiostro. Ancora una boccata d’aria, il freddo del nord che mi penetra nei polmoni, l’aria pura di quel santuario che mi purifica il corpo e l’anima. Per un attimo, nella quiete del primo mattino, chiudo gli occhi e divento quella statua, quegli alberi, quelle foglie e quegli uccelli. Per un attimo, inspirando quell’atmosfera raggelata, dimentico le ansie e le delusioni che mi hanno accompagnato nei giorni precedenti, così come lo stress del lavoro. Per un attimo riesco a ritrovare il mio centro, grazie ad un improbabile luogo nascosto tra le case cenerine e tutte simili che definiscono questa città squadrata e monocromatica. Riapro gli occhi e osservo quegli alberi che si ergono rigidi e flemmatici contro il cielo coperto da uno strato di placidi, grigi nembi che ovattano la luce del sole. Ho scoperto che c’è del piacere anche nella natura fredda, coperta nell’aria frizzante e pungente del settentrione, così differente dalla vegetazione con la quale sono vissuto in Sicilia: selvaggia e senza confini, un’esplosione colorata del più primigenio volto della terra. Colori di cui già sento la mancanza, ma che non troverebbero posto in questo luogo, così diverso ma a sua volta così esatto.

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Alzo il bavero del cappotto, rifugio le mani nel tepore delle tasche e dopo quei brevi minuti di meditazione ad occhi aperti ritorno verso i miei impegni quotidiani, il tacco delle mie scarpe che rintocca sulla pietra e riecheggia nella bianca serenità del mio alloggio.

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