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Carpe diem

Alba_con_rugiadaCi sono quelle albe maledette che, un paio di volte nella vita, ti appesantiscono l’anima anziché alleggerirla. Sono quelle albe che non sorgono insieme a te, ma che anzi ti trovano, lento e assonnato, a camminare sulla strada per casa con i capelli sfatti e un’espressione a metà tra il felice e il pensieroso. Sono quelle albe che seguono notti così intense, così piene di emozioni, così tirate verso il limite dell’umana comprensione e capacità di accettazione che rendono palese il fatto che, qualunque cosa possa accadere il giorno successivo, non sarà mai neanche lontanamente paragonabile a quanto è già accaduto. Quelle albe segnano una sorta di limite: sono una sottile linea di confine che appare nell’esatto momento in cui il passato è troppo pieno e il futuro troppo vuoto, mentre il presente è ridotto ad un mero periodo di transizione carico di speranze. Eppure, io so già di aver fatto il passo più lungo della gamba e so bene che, quando la parte migliore si presenta all’inizio, significa che ciò che rimane della strada è il tratto in salita.

Consapevole di tutto ciò, prima di aprire il cancelletto di casa mi volto e poggio la schiena contro l’inferriata carica del freddo della notte appena dissoltasi, per poi lasciarmi scivolare lentamente a terra, sedendomi contro il gradino. Intorno a me, riparte la vita: la gente esce di casa, ancora assonnata, ed entra in auto per dirigersi al lavoro. Qualche uccello si leva nel cielo ancora sonnecchiante e i suoni del mondo, a poco a poco, si risvegliano. Io, però, non ho voglia di unirmi a loro. Ho bisogno, semplicemente, di ripetermi due parole: carpe diem.
Qualche mese fa scrissi che «la spettacolarità dell’esistenza è la consapevolezza di essere padroni di un momento unico e prossimo a sparire». Oggi, penso che avevo dannatamente ragione ma che non avevo preso in considerazione ciò che accade quando quel momento è ormai scomparso, rimanendo solo un ricordo.
Osservo il cielo bluastro che precede l’apparizione del sole e penso che da ora inizieranno i problemi. Ancora una volta.

“Guess it’s true, I’m not good at a one-night stand
But I still need love ‘cause I’m just a man
These nights never seem to go to plan
I don’t want you to leave, will you hold my hand?

Oh, won’t you stay with me?
‘Cause you’re all I need
This ain’t love, it’s clear to see
But darling, stay with me

Why am I so emotional?
No, it’s not a good look, gain some self-control
And deep down I know this never works
But you can lay with me so it doesn’t hurt”

–Sam Smith

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My_Sad_Little_Christmas_Tree_by_shizzoMi manca fare l’albero di Natale insieme ai miei genitori.

Si passava tutto il pomeriggio nel salotto: dopo aver spostato i mobili, mio padre spingeva il vaso fino all’angolo e dopodiché impiegavamo il nostro tempo a decorarlo. Per prima cosa, mio padre si occupava delle luci, quindi si faceva da parte lasciando a me e a mia madre campo libero. Il mio compito era quello di appendere le palline ed era un incarico in cui mettevo tutta la mia dedizione: cercavo di posizionarle sempre alla giusta distanza, scegliendo con cura i rami, pungendomi i polsi con le foglie aghiformi. Sceglievo il tipo di palla, cambiavo i gancetti di plastica quando questi erano rotti, mettevo le mie preferite davanti e le altre dietro. Non appena eravamo soddisfatti del risultato, si spargevano le stelle filanti. L’ultimo passo consisteva nel collocare la stella sulla cima dell’albero: anche questo era un incarico che ricadeva su mio padre, il quale era l’unico abbastanza alto da riuscirci. A quel punto mia madre passava l’aspirapolvere per ripulire il pavimento dai mille aghi di pino che erano caduti per terra e quando aveva finito io la aiutavo a riporre tutto il materiale nelle scatole, che poi andavano conservate da qualche parte in balcone.

Non importa quante altre decorazioni fossero collocate per casa, o quanto magnifico fosse il presepe di mia madre: per me era l’albero il vero simbolo del Natale. Ogni volta che passavo dentro o vicino al salotto, il fresco profumo che emenava mi inebriava. Amavo sdraiarmi sul divano, sotto i suoi rami, per giocare o per pensare, alle volte rivolgendogli la testa e certe altre volte i piedi, con la luce accesa o spenta per meglio osservare i led alternarsi in una caleidoscopia di colori. Quando la sera volevo guardare un film, ricordo che quelle luci intermittenti non le spegnevo neppure perché, nonostante si riflettessero sullo schermo del televisore, mi infondevano un senso di pace e di serenità.

Adesso, una ventina d’anni dopo, varco la porta di casa nel cuore della notte e l’albero, per la prima volta in vita mia, non c’è più. La sua assenza è palese e l’aspetto piatto della stanza, la sua atmosfera inodore, mi tocca i ricordi come una mano che mi sfiora il cuore. Mi guardo intorno, percepisco il vuoto che regna nell’angolo che a lui era dedicato, quindi inizio a rievocare i ricordi, i quali si accendono come un film che viene proiettato intorno a me nella stanza in cui mi trovo: le scatole aperte per terra, io bambino che salto da una parte all’altra, mio fratello che si protende, piccolo, per arrivare ai rami, i miei genitori che si affannano per starci dietro. Immagini eteree che giocano intorno a me, svanendo lentamente come le note del cd di Natale, ogni anno sempre lo stesso, che ascoltavamo quel giorno.

Mi siedo per terra, così come sono.
La vita passa troppo in fretta.

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Parole

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La parola è lo strumento più potente che sia mai stato concesso all’uomo.

Spesso e volentieri la prendiamo per scontata e ciò ci porta a sottovalutarla, ma se solo ci fermassimo a riflettere su quanta potenza è trattenuta al suo interno, avremmo di che riconsiderarla. Non stiamo parlando di un mero artifizio del linguaggio, sia esso scritto o parlato: la parola è molto più di questo, riesce a smuovere energie e a modellare il mondo intorno a noi, contribuendo alla costruzione del grandissimo puzzle visibile e invisibile nel quale ogni giorno ci muoviamo.

Tale è la potenza delle parole, visive o sonore: separano l’immaginario dal reale, il frutto della mente dalle entità del mondo, l’inesistente dall’esistente. Una volta che vengono pronunciate, o scritte, non possiamo più ignorarle come se fossero pensieri volatili, perché da quel momento ci sono. Nel momento in cui esse fuoriescono da noi per entrare nel mondo, in un certo qual senso lo cambiano per sempre, rendendoci allo stesso tempo creatori, modellatori e distruttori. Basta pensare alle parole che hanno cambiato il mondo, che hanno smosso le masse, che hanno trasformato la storia dell’umanità. Le parole possono ispirare e demotivare, farci fare i conti con noi stessi, aprire e chiudere orizzonti. Gli uomini vivono e muoiono per delle parole, sono disposti a battersi per esse e solo perché, dopo essere nate nella mente di qualcuno, sono state messe al mondo e, così facendo, rese reali.

Ed io mi osservo nello specchio, seduto nella penombra della mia stanza nel cuore della notte: la camicia sbottonata, una mano tra i capelli, la manica aperta che ne copre il dorso, l’aria stanca e un sospiro tra le labbra.
Le parole, queste maledette.

Parole

142310473_d2348bcec9_oC’è qualcosa di diverso nel mondo contenuto in questo finestrino opaco, su un treno fatiscente che percorre la Sicilia.
Non è il paesaggio esterno, perché quello è quasi immutato da quando ne ho memoria. Non è neanche il susseguirsi della ruota delle stagioni: fuori cala la notte, il buio permea le strade e l’illuminazione artificiale giallastra si riflette sull’asfalto e rischiara debolmente e in modo freddo le auto che passano di corsa, senza tempo, senza spazio.

Sono io, è il mio riflesso ad essere diverso.

Guardo una figura in piedi, in fila con le altre persone che attendono che il treno si fermi in stazione e ci faccia scendere. Guardo una figura che si sovrappone alle luci notturne della città, mescolandosi con esse, e penso: «Quello non sono io».
Allora continuo a guardarla e cerco di capire cos’è che mi sta trasmettendo questa strana sensazione, improvvisamente e senza alcun dubbio. Forse è la postura: è per caso cambiata nel corso degli ultimi mesi? Oppure è la barba, può darsi che sia vero che rende più vecchi come tutti dicono. Magari ancora è la camicia che mi dona un’aspetto più serio, più formale, a cui ancora non mi sono abituato. Ancora, potrebbero essere tutte queste cose messe insieme. Immagino che la nostra percezione di noi stessi sia un sistema non lineare in cui il totale è maggiore della somma delle parti.

So solo che ho sempre odiato il fatto di sembrare più piccolo di quanto in realtà io non sia: la gente continua a darmi dai diciotto ai vent’anni e questo influenza il peso che attribuiscono alle mie parole. Ma presumo che, a questo punto, io dovrei aver capito il mio errore: il modo in cui ci presentiamo al mondo è solo una proiezione pesata del nostro essere interiore. Quello che non avevo ancora capito è che dovevo attuare un drastico cambiamento interiore e che quello esteriore sarebbe giunto di conseguenza. Tuttavia, non si realizzano cambiamenti del genere senza un buon motivo ed è proprio in questo periodo che io sento il bisogno di cambiare, perché non ho più voglia di qualcosa di vecchio e consolidato che mi porto dentro. Perché alle volte, come questa, vorrei davvero essere una persona peggiore di quella che sono, perché la vita è più facile se sei uno stronzo patentato. Ma il mio problema è proprio questo: anche se ci provo, non riesco a smuovermi dalla mia struttura e ricado sempre in ciò che sono: un povero idiota disposto a sacrificare sè stesso per ciò che gli sta a cuore, in un mondo dove i sacrifici passano inosservati dietro il caos delle auto, dei treni, dei bus, degli impegni e degli orari, dei social network, dei “mi piace” e delle corse sfrenate.

Improvvisamente, ho capito!

Sono gli occhi.
Già: sono quelli ad essere diversi. Mi stanno guardando in un modo… strano. Nuovo. Come se lo sguardo riflesso non fosse il mio. Ho l’insolita sensazione che colui il quale risponde al mio contatto visivo sia una mia versione del futuro. Una versione che non capisco se mi piaccia o meno: quegli occhi sembrano più saggi, più vissuti, ma hanno un peso che sembra gravare su di eyeloro dall’interno. Quegli occhi mi parlano di altro: di un tipo di dolore che non avevo mai conosciuto e che sono stato costretto a sperimentare. Di una sfaccettatura della vita di cui non conoscevo proprio niente e a cui mi sono dovuto abituare in un tempo relativamente stretto. Di processi mentali, a volte piacevoli ed altre volte meno, a cui non mi ero mai sottoposto, a pensieri contro cui non avevo mai dovuto fare i conti, con sensazioni e percezioni che vanno da quello di un caldo focolare che riscalda il cuore a quello di una vipera che serra il petto.

Però riuscite a pensate a quale paradosso sia l’occhio che guarda sè stesso? Non dovrebbe essere considerato qualcosa di innaturale?

Nel frattempo il treno si ferma e io dò un’ultima occhiata a quel Samuele che mi osserva, stanco, dal finestrino. Mi muovo e, insieme a me, scompare anche lui. Metto piede nella città ammantata di quella luce artificiale e respiro a fondo, massaggiandomi la radice del naso.

Ho bisogno di silenzio.

Scogliera al tramonto

Avevo altre cose da fare.
Posti dove andare, gente da sentire, telefonate da comporre, quadernoni da riempire, codici da scrivere. Ero pieno di impegni, in effetti, ma devo ammettere di essermi reso conto che se fossi sparito per qualche ora non avrei fatto un torto a nessuno, tranne che a me stesso. Dunque, ho girato il volante nella direzione opposta e ho cambiato strada.

Questo posto è solo leggermente fuori mano, ma resta sempre una tappa imperdibile almeno una volta durante l’estate. Il paesino non è nulla di che, ma in fondo ad una strada pedonale, al di là di un recinto di legno e un sentiero nella terra, si trova una scogliera di incredibile bellezza. È lì che mi sono diretto, mentre il sole si accingeva a tramontare, lentamente e inesorabilmente. Sulla cima della salita si trova un piccolo santuario che ho aggirato per potermi accucciare direttamente sulle rocce e poter guardare senza vincoli davanti a me. È stato lì, sulla cima del promontorio, con il vento salmastro che mi soffiava contro, che ho potuto ammirare lo spettacolo delle onde che si infrangevano rombando contro gli scogli, parecchi metri sotto di me.

Sant Elia

Quel luogo, dove giungono solo i suoni del vento e del mare, è uno di quelli in cui mi piace stare in silenzio a riflettere, quando ne sento il bisogno. Posso sedermi contro il volto primigenio della terra, scattare qualche foto e allontanarmi dal ronzio della città, dai suoi fastidiosi rumori di sottofondo.
Ed allora rifletto. Tanto. A lungo. Rifletto sulla direzione in cui sto andando, controllo per vedere se è tutto a posto, mi prendo qualche minuto per analizzare ciò che ho intorno e per bilanciare le variabili della mia vita. Noto che, a differenza dell’ultima volta, c’è una strana nota all’interno della mia sfera di quiete interiore: una sorta di corda pronta a vibrare, ad emettere un suono. Che tipo di suono, ancora non lo so: potrebbe essere una nota musicale che si armonizzi con la mia pace, oppure una dissonanza che la metta in agitazione. Sorrido lievemente, perché la sua presenza non mi è di certo passata inosservata. Anzi, proprio di recente qualcuno mi ha consigliato di farvi attenzione.

Tuttavia, una volta Henry David Thoreau scrisse:

Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.

Sia mai che io un giorno mi guardi alle spalle e mi renda conto di non aver vissuto! Alle volte bisogna rischiare tutto per arrivare da qualche parte, ma alla fine più che dare il meglio di noi stessi, non possiamo fare. In questo momento, sento di avere abbastanza energie in corpo per dare quel meglio. Ho una buona motivazione per farlo, ho intorno chi lo merita. Il risultato finale è tutto da stabilire, ma se anche dovessi fallire nel raggiungere la mia meta, non si possa mai dire che è accaduto per colpa mia e del mio mancato impegno. Nel bene o nel male, si combatte sino alla fine.

A mano a mano che il tramonto avanza, il cielo diventa rosso. Non però di quel piacevole colore che preannuncia la scomparsa del sole, bensì un rosso arido, di fuoco. Neanche il tempo di riuscire a formulare questo pensiero, che le nuvole si addensano nel cielo ed iniziano a riversare su di me un sottile manto d’acqua. Sento le gocce picchiettarmi contro le spalle e la testa, ma non mi muovo: resto ancora a guardare l’orizzonte, mentre sottili rivoli d’acqua iniziano a scorrermi lungo il busto e una guancia. Il mare sotto di me ruggisce, disinteressato a tutto questo, continuando il suo assalto contro la costa.

Sento di non avere più nulla da fare lì, dunque infracidito mi alzo e mi allontano a passo lento, quasi come se la pioggia non esistesse, verso il sentiero che conduce a valle della scogliera.
Ho una battaglia che mi attende e non vedo l’ora di impugnare le armi.

 
 
Fotografia concessa in cortesia da Fabio Sciacchitano

Vento di scirocco

img_1113Eccomi qui, ancora una volta, di fronte a me stesso.

Sono le due del mattino e, giustamente, non riesco a prendere sonno. È così che decido di salire in terrazza, vestito come sono, e sedermi contro la notte ad ascoltare il silenzio. Sotto di me, la città si stende ai miei piedi: le strade sono deserte e neanche un gatto o un cane ne animano gli anfratti rischiarati dai lampioni messi in fila. I palazzi sono muti e dalle poche finestre ancora illuminate non provengono che suoni attenuati, nel rispetto della notte. Con le gambe penzoloni di fronte a me, sposto la vista in lungo e in largo, ammirando la maestosità di questo incantesimo millenario che, giornalmente, mette a riposo l’arteria pulsante e vibrante di vita che è la città. Stanotte la temperatura è abbastanza alta e soffia un forte vento di scirocco, caldo e arido, che mi godo in pieno.

Mi sdraio con la schiena contro il parapetto e mi unisco al coro di silenzio, entrando a far parte di quella grande orchestra che riproduce il sottofondo sonoro del luogo. Qua in alto, sopra i palazzi, col vento che mi porta il calore dell’Africa, sono in parte me stesso e in parte tutto il resto del mondo. Alzo gli occhi: sopra di me capeggia qualche stella, parzialmente celata dal caos di luci che cancellano alla vista il firmamento. Rimango a guardare quelle poche superstiti, mentre rifletto sulla mia giornata e sul perché, a quest’ora, mi trovo qui anziché nel mio letto.

Ieri notte ho fatto un sogno. Un sogno che non volevo fare. Un sogno che non dovevo fare. Se chiudo le palpebre riesco a rivederlo perfettamente e riprodurlo come in una moviola, fermarlo, riavvolgerlo, farlo ripartire. Vedo una mano, quella maledettissima mano bianca dalle piccole dita, che mi cerca nel vuoto. Una voce che riesce a far risuonare una corda direttamente nel mio cuore, rievocando qualcosa che avevo messo da parte. Non vedo alcun paio d’occhi, per mia fortuna, ma sento delle labbra che mi cercano di loro iniziativa e che scopro di ricordare perfettamente. Per la prima volta, io non vado loro incontro. Poi quel fantasma si abbraccia alla mia schiena, mentre io, distaccato e solo per metà interessato, guardo altrove: verso la folla, verso la gente che mi passa accanto guardandomi con disappunto. Ed è proprio quella delusione a pervadere l’ambiente di cui sono il centro e che anch’io sento in cuor mio: mi deludo da solo per essere ancora seduto su quella panca onirica, con quel fantasma sulla schiena, con quella nota vibrante nel cuore, con gli occhi fissi verso il nulla. Poi quella delusione va oltre, fuoriesce dal sogno e raggiunge il mio Io cosciente. Eppure non mi va di essere ipocrita e lo ammetto: un po’ mi manca quel fantasma, che non vedo più da molti, molti mesi.

Eppure…

Richiudo gli occhi, incrocio le mani dietro la nuca, apro le braccia e inspiro a fondo: l’aria della notte, dello scirocco, delle stelle e del silenzio. Il respiro fluisce, portandomi quell’afa siciliana dritta nei polmoni, e improvvisamente mi ritrovo a sorridere perché mi rendo conto che il punto in cui sono è esattamente quello dove dovrei essere. Qui mi sento bene e, soprattutto, me stesso.
Non ce ne facciamo nulla della felicità, se non abbiamo la serenità.

So leave the memories alone
I don’t want to see
The way it is, as to how it used to be
Leave the memories alone, don’t change a thing
And I’ll hold you in my memory

Fuel – “Leave the Memories Alone”

Con l’animo sereno lascio il terrazzo, la città e il vento di scirocco alle mie spalle per andare a dormire.

Equilibri dell’anima

2014-04-13 12.07.06Sono seduto al centro della radura: intorno a me si snoda un pianoro fiorito che diverge in tutte le direzioni, prima di incontrare l’anello di alberi che lo racchiude e separa dal resto del bosco. Le fronde smeraldinee splendono di vitalità sotto il sole di primavera e si estendono ovunque cada l’occhio, seguendo la forma della montagna, incorniciandone il profilo e carezzandone la superficie di terra e pietra.

Alzo gli occhi verso il sole di mezzogiorno che si trova proprio su di me e che sbaraglia con la sua luce ogni traccia dell’inverno appena concluso. Il cielo, azzurro e terso, riecheggia del canto degli uccelli, delicato all’udito. Se il paradiso ha un suo sottofondo musicale, sono sicuro che sia questo: una lieve melodia che mi induce a chiudere gli occhi e a riempirmi di questo spazio, di questo tempo, sradicandomi dalla civiltà che mi fa perdere il contatto con questo capolavoro della creazione. Come ingegnere, impallidisco: mi rendo conto che nulla di ciò che potrò mai realizzare sarà anche solo paragonabile, in bellezza, a tutto questo.

Nel mio silenzio, che diventa parte del suono del mondo, ringrazio per ciò che ho: il calore e la luce che giungono a sollevarmi l’animo, la quiete a cui il mio spirito tanto anela, la pace di questo luogo isolato dal mondo. Mentre mi perdo nella contemplazione, cancellando ogni altro pensiero dalla mente, riesco ad udire, da qualche parte all’interno dell’anello di alberi, i miei amici, i miei fratelli, scherzare tra di loro come se nient’altro esistesse all’infuori di questa radura: i problemi, le preoccupazioni e i timori svaniscono e ci ritroviamo con il cuore aperto dinnanzi al volto primigenio della Terra. Sorrido per ciò che sento e anche perché non sanno che, in questo momento, la mia matita scorre sul foglio tracciando parole che parlano di loro. Rifletto e penso che questo non durerà: finora la vita mi ha benedetto con il tempo per poter vivere insieme a loro, ma quanto ancora ne avrò a disposizione? Poco, temo. Troppo poco. Ma c’è qualcosa che non potrà mai venir meno: a molti anni da ora, nella vecchiaia della mia vita, quando il mio mondo si sbiadirà per fare posto al nuovo, questo è ciò di cui mi ricorderò, quello che tornerà alla mia memoria mentre, in attesa dell’ultimo respiro, mi chiederò se ho vissuto al meglio la mia vita, se sono riuscito a trovare la felicità da questa esistenza. Non il successo, il fallimento, i dolori e le gioie, non le perdite e gli amori, non le emozioni date e quelle tolte, nè i baci ricevuti o desiderati. Di quanti abbracci mi sarò dimenticato? Quanti i litigi che cadranno nell’oblio? Ma questo giorno rimarrà per sempre, proprio per ciò che rappresenta.

raduraInspiro a fondo e racchiudo questo momento, lo fotografo nella mente, lo cristallizzo nel cuore: la pace della Natura e i miei amici che, non vedendomi, si chiedono dove io sia. Ma io sono proprio qui: in mezzo a questi cespugli che non si elevano più in alto di me, inginocchiato contro la nuda terra, a ringraziare la vita.

Forse riesco a rinascere. Forse, questa volta, ho ritrovato la primavera. Ma una cosa è sicura: anche nei momenti peggiori, finché avrò a disposizione quei tre ragazzi e un angolo di Natura, sono in una botte di ferro.

Echi di primavera

monte-le-reti-sole-1Oggi sono terribilmente irrequieto.
Forse il motivo lo conosco: il sole splende caldissimo, senza che un refolo di vento riesca a infreddolire la giornata. Dalle finestre della biblioteca della facoltà, le fronde degli alberi risplendono di un verde smeraldineo, quasi come se si fossero risvegliate sotto una nuova luce. Le nuvole bianche in cielo formano un circolo sopra la mia testa, racchiudendo l’orizzonte e lasciando un varco azzurro proprio davanti all’astro dorato.

Tra poco dovrò affrontare l’ultimo esame del semestre, ma penso di essere arrivato a stancarmi proprio nel corso della volata finale: dopo più di un mese passato introdottamente sulla materia, la mia testa non ne vuole più e reagisce ai raggi quasi primaverili ribellandosi alla staticità della mia postura in sala studio. Cerco di riprendere in mano le redini della mia mente, ma questa scalpita incontrollabile. Sopraffatto dagli eventi, poso tutto ed esco.
Solo pochi minuti dopo sono seduto sotto quell’amichevole calore, sul bordo di ciò che qui viene chiamata la “piscina” dell’Università. L’acqua gorgoglia e un profilo di alberi e denti di leone incorniciano la mia vista, mentre il riflesso della luce sull’acqua limpida intensifica la canicola mattutina.

piscina

È da troppo tempo, ormai, che la mia quotidianità sembra ristagnare intorno alla propria routine. Casa, università, pc, amici. Sempre le stesse cose, in un ciclo ricorsivo da cui non riesco ad uscire. Esco di casa e non vedo l’ora di tornarci, rientro e mi sento oppresso da queste mura e smanioso di uscire di nuovo. Per andare dove, poi? L’unico luogo dove vorrei veramente andare mi è irraggiungibile al momento. Dunque sto qui, schiena contro il muretto e le scarpe ad un soffio dall’acqua, ad ascoltare i suoni di questa giornata, a ricercarne l’essenza nel vano tentativo di assorbirne un po’.

Apro il Kindle e cerco di distogliermi da tutto quanto: dalla materia, dall’esame tre meno di ventiquattr’ore, dagli impegni, dalle aspettative e dalle preoccupazioni. Tra il sole e le righe del libro, cerco di distogliermi completamente dalla mia routine e di spezzarla, in modo stupido e insensato: ciò di cui ho bisogno è rompere questo anello, non importa come. L’importante è darmi una via di fuga da questo mulinello composto da giorni sempre uguali: una volta giunto a questo, tutto il resto seguirà con assoluta certezza.

Sono rimasto un po’ indietro, mentre tutti gli altri sono andati avanti. Dovrei posare i libri, smettere di scrivere, disimpegnarmi da tutto ciò che è importante per far spazio, per un poco, a ciò che non lo è.: solo così posso sperare di riuscire a ritrovare un po’ della vitalità perduta che al momento riesco solo a vedere proiettata nella natura intorno a me.