Category: Evoluzione


È da molto che non scrivo sul Triskele. Quest’anno è stato veramente poco florido, per quanto riguarda la mia attività di scrittura, ma la verità è che ho preferito concentrarmi su altri aspetti della mia vita. Spero di aver fatto bene e di raccogliere presto i frutti di ciò in cui ho investito e continuo ad investire le mie energie, ma per il momento mi ritrovo sulla soglia del Natale a riflettere un po’ su ciò che è stato.

Quest’anno mi ha fatto comprendere due grandi cose, anche se in realtà non si tratta di niente di nuovo bensì semplicemente di promemoria che sembrano riproporsi costantemente davanti ai miei occhi. La prima è questa: la mia attività di scrittura sembra farsi carico degli stati d’animo negativi, più che quelli positivi. È una cosa su cui ho pensato molto e che non riesco ancora a capire completamente, ma nei periodi in cui sono più triste, ho dei problemi più grandi o sono semplicemente più carico di pensieri poco lieti, sembro riuscire a produrre molto di più rispetto a quando va tutto bene e non sono affetto da alcun tipo di preoccupazione. Mi chiedo perché ciò avvenga, anche se non riesco a trovare la risposta: può darsi che tenti di esorcizzare i miei stati d’animo peggiori attraverso la tastiera? Dalla premessa a questo articolo, se ne può facilmente intuire che questo 2015 è stato per me abbastanza positivo, ad eccezione di qualche spirale più bassa.
La seconda cosa che ho imparato dagli ultimi dodici mesi è che sembro aver perso definitivamente un po’ della stabilità che mi caratterizzava quattro o cinque anni fa. Non intendo approfondire l’argomento, perché ritengo che sia qualcosa di molto personale, ma mi basti trascrivere qui, per il mio stesso futuro, che quando si riesce ad adottare un comportamento più inflessibile e più egocentrico si ricevono in ritorno un minor numero di grattacapi. Non è una cosa carina nè un bell’insegnamento da tramandare, ma voglio essere molto schietto e ammettere che da quando ho iniziato a sbilanciarmi nei riguardi delle persone ne ho avuto solo a perdere. Questa considerazione esclude chiaramente il Prect en Rahkoon, il mio gruppo di amici e fratelli che anche quest’anno, forse il decimo da quando ci siamo conosciuti, continua a confermare come esso sia il più saldo e indissolubile punto di riferimento della mia vita, l’unico faro ancora in vista a mano a mano che solco acque sempre più profonde.

È stato un anno assolutamente incredibile per quanto riguarda uno dei due sogni più grandi della mia vita: sono riuscito, finalmente, a studiare i fondamenti dell’intelligenza artificiale e della robotica e anche a metterli in pratica. Ho potuto toccare con mano questa scienza che tanto avevo desiderato conoscere e ho potuto assistere a conferenze, conoscere nuova gente, ottenere spunti di riflessione e modificare in maniera sostanziale e fondamentale l’approccio alla mia professione, conferendogli una direzione ben precisa. Ho anche aperto un nuovo blog, su cui ho dedicato più tempo che sul Triskele: Clockwork Humans, dove insieme ad una piccola redazione ho iniziato a parlare sul rapporto tra gli esseri umani, i robot e le macchine intelligenti che giorno dopo giorno assumono ruoli sempre più importanti nella nostra realtà quotidiana.

PSX_20151224_221343Infine, una piccola riflessione di chiusura dell’anno. Più passa il tempo, più mi sembra che questo scorra velocemente: è un po’ come se la vita fosse soggetta ad un’accelerazione che aumenti gradualmente con l’aumentare dell’età. Di questo passo, mi chiedo che effetto farà essere anziani: saranno le giornate ancora più corte o, al contrario, quest’accelerazione si rivelerà avere la forma di una campana che discenderà dopo aver raggiunto il picco e tornerò dunque a percepire il tempo in maniera più lenta, come mi accadeva quando ero bambino e spensierato? Chissà. Eppure so che c’è qualcosa che sta cambiando e che non tornerà mai come prima: questo Natale è troppo quieto, le mura di questa casa sono troppo silenziose e non si sentono più le voci che solevano riempirla in passato. C’è un freddo intenso che permea dall’esterno e che io tento di combattere inerzialmente semplicemente osservando fuori dalla finestra, verso la misera skyline di palazzi bassi e fatiscenti costellati di puntini di luce. Osservo quelle finestre lontane e per un attimo desidererei solo dissolvermi, smettere di percepire questo freddo e tutto me stesso e diventare, per un solo momento, un semplicissimo spettatore che possa viaggiare di casa in casa ad imparare cos’è la vita da coloro che non conosce. Anche solo per un istante, poter leggere le storie di queste persone, sapere cosa si prova ad essere qualcos’altro, a vivere in altri luoghi, a fare altre cose. Purtroppo però, molto prevedibilmente, non mi dissolvo nè il freddo si attenua, non riesco a transitare dal lato dello spettatore, nè conoscerò mai la miriade di storie che tutta questa gente con cui mai parlerò sarebbe in grado di raccontarmi. Resto ad assaporare ancora per un po’ questa consapevolezza, dunque con un mezzo sorriso malinconico spengo la luce e, accompagnato dal fioco baluginio delle luci sull’albero di Natale, mi allontano dalla finestra, ritornando al silenzio di queste mura dove appartengo.

Buon Natale 2015 e buon anno nuovo a tutti i miei lettori.

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142310473_d2348bcec9_oC’è qualcosa di diverso nel mondo contenuto in questo finestrino opaco, su un treno fatiscente che percorre la Sicilia.
Non è il paesaggio esterno, perché quello è quasi immutato da quando ne ho memoria. Non è neanche il susseguirsi della ruota delle stagioni: fuori cala la notte, il buio permea le strade e l’illuminazione artificiale giallastra si riflette sull’asfalto e rischiara debolmente e in modo freddo le auto che passano di corsa, senza tempo, senza spazio.

Sono io, è il mio riflesso ad essere diverso.

Guardo una figura in piedi, in fila con le altre persone che attendono che il treno si fermi in stazione e ci faccia scendere. Guardo una figura che si sovrappone alle luci notturne della città, mescolandosi con esse, e penso: «Quello non sono io».
Allora continuo a guardarla e cerco di capire cos’è che mi sta trasmettendo questa strana sensazione, improvvisamente e senza alcun dubbio. Forse è la postura: è per caso cambiata nel corso degli ultimi mesi? Oppure è la barba, può darsi che sia vero che rende più vecchi come tutti dicono. Magari ancora è la camicia che mi dona un’aspetto più serio, più formale, a cui ancora non mi sono abituato. Ancora, potrebbero essere tutte queste cose messe insieme. Immagino che la nostra percezione di noi stessi sia un sistema non lineare in cui il totale è maggiore della somma delle parti.

So solo che ho sempre odiato il fatto di sembrare più piccolo di quanto in realtà io non sia: la gente continua a darmi dai diciotto ai vent’anni e questo influenza il peso che attribuiscono alle mie parole. Ma presumo che, a questo punto, io dovrei aver capito il mio errore: il modo in cui ci presentiamo al mondo è solo una proiezione pesata del nostro essere interiore. Quello che non avevo ancora capito è che dovevo attuare un drastico cambiamento interiore e che quello esteriore sarebbe giunto di conseguenza. Tuttavia, non si realizzano cambiamenti del genere senza un buon motivo ed è proprio in questo periodo che io sento il bisogno di cambiare, perché non ho più voglia di qualcosa di vecchio e consolidato che mi porto dentro. Perché alle volte, come questa, vorrei davvero essere una persona peggiore di quella che sono, perché la vita è più facile se sei uno stronzo patentato. Ma il mio problema è proprio questo: anche se ci provo, non riesco a smuovermi dalla mia struttura e ricado sempre in ciò che sono: un povero idiota disposto a sacrificare sè stesso per ciò che gli sta a cuore, in un mondo dove i sacrifici passano inosservati dietro il caos delle auto, dei treni, dei bus, degli impegni e degli orari, dei social network, dei “mi piace” e delle corse sfrenate.

Improvvisamente, ho capito!

Sono gli occhi.
Già: sono quelli ad essere diversi. Mi stanno guardando in un modo… strano. Nuovo. Come se lo sguardo riflesso non fosse il mio. Ho l’insolita sensazione che colui il quale risponde al mio contatto visivo sia una mia versione del futuro. Una versione che non capisco se mi piaccia o meno: quegli occhi sembrano più saggi, più vissuti, ma hanno un peso che sembra gravare su di eyeloro dall’interno. Quegli occhi mi parlano di altro: di un tipo di dolore che non avevo mai conosciuto e che sono stato costretto a sperimentare. Di una sfaccettatura della vita di cui non conoscevo proprio niente e a cui mi sono dovuto abituare in un tempo relativamente stretto. Di processi mentali, a volte piacevoli ed altre volte meno, a cui non mi ero mai sottoposto, a pensieri contro cui non avevo mai dovuto fare i conti, con sensazioni e percezioni che vanno da quello di un caldo focolare che riscalda il cuore a quello di una vipera che serra il petto.

Però riuscite a pensate a quale paradosso sia l’occhio che guarda sè stesso? Non dovrebbe essere considerato qualcosa di innaturale?

Nel frattempo il treno si ferma e io dò un’ultima occhiata a quel Samuele che mi osserva, stanco, dal finestrino. Mi muovo e, insieme a me, scompare anche lui. Metto piede nella città ammantata di quella luce artificiale e respiro a fondo, massaggiandomi la radice del naso.

Ho bisogno di silenzio.

Equilibri dell’anima

2014-04-13 12.07.06Sono seduto al centro della radura: intorno a me si snoda un pianoro fiorito che diverge in tutte le direzioni, prima di incontrare l’anello di alberi che lo racchiude e separa dal resto del bosco. Le fronde smeraldinee splendono di vitalità sotto il sole di primavera e si estendono ovunque cada l’occhio, seguendo la forma della montagna, incorniciandone il profilo e carezzandone la superficie di terra e pietra.

Alzo gli occhi verso il sole di mezzogiorno che si trova proprio su di me e che sbaraglia con la sua luce ogni traccia dell’inverno appena concluso. Il cielo, azzurro e terso, riecheggia del canto degli uccelli, delicato all’udito. Se il paradiso ha un suo sottofondo musicale, sono sicuro che sia questo: una lieve melodia che mi induce a chiudere gli occhi e a riempirmi di questo spazio, di questo tempo, sradicandomi dalla civiltà che mi fa perdere il contatto con questo capolavoro della creazione. Come ingegnere, impallidisco: mi rendo conto che nulla di ciò che potrò mai realizzare sarà anche solo paragonabile, in bellezza, a tutto questo.

Nel mio silenzio, che diventa parte del suono del mondo, ringrazio per ciò che ho: il calore e la luce che giungono a sollevarmi l’animo, la quiete a cui il mio spirito tanto anela, la pace di questo luogo isolato dal mondo. Mentre mi perdo nella contemplazione, cancellando ogni altro pensiero dalla mente, riesco ad udire, da qualche parte all’interno dell’anello di alberi, i miei amici, i miei fratelli, scherzare tra di loro come se nient’altro esistesse all’infuori di questa radura: i problemi, le preoccupazioni e i timori svaniscono e ci ritroviamo con il cuore aperto dinnanzi al volto primigenio della Terra. Sorrido per ciò che sento e anche perché non sanno che, in questo momento, la mia matita scorre sul foglio tracciando parole che parlano di loro. Rifletto e penso che questo non durerà: finora la vita mi ha benedetto con il tempo per poter vivere insieme a loro, ma quanto ancora ne avrò a disposizione? Poco, temo. Troppo poco. Ma c’è qualcosa che non potrà mai venir meno: a molti anni da ora, nella vecchiaia della mia vita, quando il mio mondo si sbiadirà per fare posto al nuovo, questo è ciò di cui mi ricorderò, quello che tornerà alla mia memoria mentre, in attesa dell’ultimo respiro, mi chiederò se ho vissuto al meglio la mia vita, se sono riuscito a trovare la felicità da questa esistenza. Non il successo, il fallimento, i dolori e le gioie, non le perdite e gli amori, non le emozioni date e quelle tolte, nè i baci ricevuti o desiderati. Di quanti abbracci mi sarò dimenticato? Quanti i litigi che cadranno nell’oblio? Ma questo giorno rimarrà per sempre, proprio per ciò che rappresenta.

raduraInspiro a fondo e racchiudo questo momento, lo fotografo nella mente, lo cristallizzo nel cuore: la pace della Natura e i miei amici che, non vedendomi, si chiedono dove io sia. Ma io sono proprio qui: in mezzo a questi cespugli che non si elevano più in alto di me, inginocchiato contro la nuda terra, a ringraziare la vita.

Forse riesco a rinascere. Forse, questa volta, ho ritrovato la primavera. Ma una cosa è sicura: anche nei momenti peggiori, finché avrò a disposizione quei tre ragazzi e un angolo di Natura, sono in una botte di ferro.

Echi di primavera

monte-le-reti-sole-1Oggi sono terribilmente irrequieto.
Forse il motivo lo conosco: il sole splende caldissimo, senza che un refolo di vento riesca a infreddolire la giornata. Dalle finestre della biblioteca della facoltà, le fronde degli alberi risplendono di un verde smeraldineo, quasi come se si fossero risvegliate sotto una nuova luce. Le nuvole bianche in cielo formano un circolo sopra la mia testa, racchiudendo l’orizzonte e lasciando un varco azzurro proprio davanti all’astro dorato.

Tra poco dovrò affrontare l’ultimo esame del semestre, ma penso di essere arrivato a stancarmi proprio nel corso della volata finale: dopo più di un mese passato introdottamente sulla materia, la mia testa non ne vuole più e reagisce ai raggi quasi primaverili ribellandosi alla staticità della mia postura in sala studio. Cerco di riprendere in mano le redini della mia mente, ma questa scalpita incontrollabile. Sopraffatto dagli eventi, poso tutto ed esco.
Solo pochi minuti dopo sono seduto sotto quell’amichevole calore, sul bordo di ciò che qui viene chiamata la “piscina” dell’Università. L’acqua gorgoglia e un profilo di alberi e denti di leone incorniciano la mia vista, mentre il riflesso della luce sull’acqua limpida intensifica la canicola mattutina.

piscina

È da troppo tempo, ormai, che la mia quotidianità sembra ristagnare intorno alla propria routine. Casa, università, pc, amici. Sempre le stesse cose, in un ciclo ricorsivo da cui non riesco ad uscire. Esco di casa e non vedo l’ora di tornarci, rientro e mi sento oppresso da queste mura e smanioso di uscire di nuovo. Per andare dove, poi? L’unico luogo dove vorrei veramente andare mi è irraggiungibile al momento. Dunque sto qui, schiena contro il muretto e le scarpe ad un soffio dall’acqua, ad ascoltare i suoni di questa giornata, a ricercarne l’essenza nel vano tentativo di assorbirne un po’.

Apro il Kindle e cerco di distogliermi da tutto quanto: dalla materia, dall’esame tre meno di ventiquattr’ore, dagli impegni, dalle aspettative e dalle preoccupazioni. Tra il sole e le righe del libro, cerco di distogliermi completamente dalla mia routine e di spezzarla, in modo stupido e insensato: ciò di cui ho bisogno è rompere questo anello, non importa come. L’importante è darmi una via di fuga da questo mulinello composto da giorni sempre uguali: una volta giunto a questo, tutto il resto seguirà con assoluta certezza.

Sono rimasto un po’ indietro, mentre tutti gli altri sono andati avanti. Dovrei posare i libri, smettere di scrivere, disimpegnarmi da tutto ciò che è importante per far spazio, per un poco, a ciò che non lo è.: solo così posso sperare di riuscire a ritrovare un po’ della vitalità perduta che al momento riesco solo a vedere proiettata nella natura intorno a me.

Awen

Awen

Mi ritrovo in questo luogo senza nemmeno sapere come.
Un attimo prima stavo camminando per il campus, diretto alla biblioteca, e un attimo dopo eccomi qui. Sono in piedi di fronte agli alberi, le mani nelle tasche per proteggerle dal freddo, lo scaldacollo tirato sino al naso. Ma non va bene: devo respirare quest’aria, perché ha qualcosa da dirmi. Sto facendo tardi, ma non riesco a curarmene: se mi trovo dove sono, un motivo ci sarà.
Nonostante siano appena le tre del pomeriggio, il sole è già abbastanza basso all’orizzonte e scaglia lance di luce che filtrano tra gli alberi, lasciando me in ombra ma illuminando tutto ciò che ho davanti: il prato, i cespugli, gli alberi, il terriccio umido del suolo, l’impronta di un inverno ormai alle porte. I rumori della strada giungono ovattati, garantendomi un certo distacco: quel che conta sono queste piante, questa terra, questo pezzo di Natura che a lungo ho ingiustamente ignorato, nonostante tutto ciò che ho trascorso qui in passato.

IMG-20120616-00749Inspiro e mi chiedo dov’è che sono. Indipendentemente dal parco, non so dirlo. Nè so cosa sto facendo o dove sono diretto. Mi massaggio la fronte, chiudendo per un attimo gli occhi, e per un breve momento tutto il resto va via e rimaniamo solo io e il mondo, spogliato dalla sua civiltà e dai suoi costrutti sociali: un tipo di contatto con la Terra che non provo di certo per la prima volta in vita mia, ma di cui sentivo la mancanza.
Il mio Equilibrio è vacillante, non c’è alcun dubbio: è da circa un anno che non riesco ad essere sereno al cento per cento. Non so come andrà a finire, tuttavia, ma capisco ancora una volta che se sono seduto di fronte alla Natura un motivo c’è, per quanto possa apparire strano al lettore. Ma gli alberi non mi parlano, bensì mi ascoltano: forse vogliono che sia io a parlare.

E allora parlo, nelle profondità del mio cuore.

Parlo e la voce esce spezzata, perché come in un contatto empatico trasmetto emozioni e non parole. Parlo ed esce fuori tutto, tutto quello che non ho mai avuto il coraggio di dire, nè di scrivere, nè di pensare. Parlo e devo sembrare davvero uno svitato per i pochi che mi passano abbastanza vicini da poter udire i miei sussurri attenuati dallo scaldacollo di fronte alle labbra.
Parlo ma non ottengo risposte, perché non pongo alcuna domanda. Mentre butto tutto fuori, mi sento come se quel pezzo di mondo mi abbracciasse, come se i rami si protendessero sulle mie spalle come mani di conforto, come se la Vita che ho davanti comprendesse e dividesse con me il mio carico.

Mezz’ora dopo, ho finito. Prendo ancora qualche istante per godere delle ultime ore di luce della giornata, quindi muovo i miei passi nuovamente verso il sentiero per tornare ai miei impegni quotidiani. In quel momento, mentre cammino lungo il viale costeggiato dagli alberi che si intrecciano come una volta sopra di me, vengo pervaso dalla netta sensazione di stare uscendo da un tempio.

POST SCRIPTUM

Chi volesse sapere che cos’è l’Awen, clicchi sulla prima immagine.

Una delle più grandi ed ineluttabili verità della vita riguarda la finalità dell’esistenza, dell’entropia, del caos in cui infine, prima o poi, ci schiantiamo quasi senza rendercene conto. Un caos vario, multiplo e stratificato, fatto di gioie o di dolori, ma anche di tutte e due, mescolate nell’agrodolce sapore della malinconia.

La grande verità è che le montagne si spaccano, i castelli cadono, gli angeli piangono. Passiamo la nostra vita ad erigere barriere, difese e protezioni, ad assicurarci la nostra incolumità in questa esistenza carica di pericoli, ma non possiamo avere sempre il controllo su tutto. Eventualmente, nei muri si formano delle crepe: alle volte ce ne accorgiamo, alle volte no. Alle volte decidiamo di riempire quelle fratture, altre volte non lo facciamo: forse per pigrizia, forse per paura di iniziare a rattoppare la nostra vita, trasformandola in un patchwork di errori e dolori ricuciti, forse ancora per avere uno spiraglio da cui guardare fuori, senza essere costretti a dover salire sui camminamenti e osservare tutto da una prospettiva innaturale. Con gli occhi al livello del suolo, anziché in aria nel cielo, riusciamo a vedere di meno, ma al tempo stesso di più: i dettagli, le sfumature, i particolari che danno senso a tutto quanto.

47270_4119397176303_1654960531_nVorrei davvero riuscire a raccontare tutto quello che mi sta succedendo in questo periodo. Sono tempi strani, in cui le mura si riempiono di crepe: gli attacchi peggiori non sono quelli che provengono dall’esterno, bensì dall’interno. I dolori celati crepano le maschere che indossiamo, in un disperato e tenace tentativo di rivelarsi, offesi dall’essere stati nascosti all’occhio del mondo: anche essi vogliono la loro parte, litigano scalmanati per avere il palcoscenico ed a nulla serve cercare di impedirgli di entrare in scena.
Sono tempi irrequieti, colmi di pensieri e per nulla rilassati: un nervosismo sottile e subdolo, che trama proprio sotto la pelle, tanto leggero quanto onnipresente in ogni momento della giornata. Sono tempi di sentimentalismi bruciati, di angeli calpestati e della muta e inerte impotenza di fronte allo scempio dell’uomo che offende, di suo proposito, il divino. Sono tempi di risposte che seguono le domande, una situazione non banale e assolutamente mai scontata. Sono tempi in cui cerco, con tutto me stesso, di impedirmi di cambiare, poiché “facilis descensus Averni” ed essere meno buoni e spontanei può sembrare spesso la soluzione, quando in realtà mi porterebbe solo a regredire ciò che sono.

È tempo di richiudere quelle fratture nelle fortificazioni: da solo, giacché ho bisogno di ritorvare il mio equilibrio e uscire da questa condizione d’irriquietezza. Mi hanno sempre accusato di chiudermi molto nelle mie difese, così ho provato ad aprirmi, per una volta in vita mia. Forse non ero pronto per tutto ciò che è straripato all’interno, forse quello che ho trovato dall’altro lato mi ha spiazzato nel profondo, strappandomi violentemente dalla mia comfort zone.
Per il momento, le porte torneranno a chiudersi. Prego con tutto il cuore che un giorno, quando sarò più preparato di adesso, riuscirò a dischiuderle nuovamente.

E’ davvero tanto tempo che non scrivo: dopo il grande numero di post in un solo mese conquistato a Dicembre, mi sono ritrovato a saltare Gennaio di sana pianta. Il punto è che non mi va mai di scrivere a comando: ritengo che, a dover scrivere banalità, faccio meglio a non dire nulla. D’altra parte, tuttavia, mi rendo conto è da tanto che non rinfresco un po’ il blog, ed eccomi qui.

Il 2013 non è iniziato nel migliore dei modi: ho avuto qualche problema con le ginocchia e con lo studio che ha portato ad un’avvio dell’anno non proprio allegro. Le cose non andavano per il verso giusto, le persone mi facevano arrabbiare, gli esami non andavano, avevo scarsa mobilità a causa delle mie condizioni di salute. Ho passato un mese a leggere stati su Facebook e tweet su Twitter in cui la gente si vantava per le lauree imminenti o per gli esami passati, mentre io mi ritrovavo a dover ripetere sempre gli stessi a causa della mia scarsa concentrazione.
Insomma, ero convinto che non avessi potuto iniziare l’anno in maniera peggiore.

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Mi è capitato, tuttavia, di parlare con delle persone, mie amiche. Come se mi fossero state messe dinnanzi dal fato (una di esse non la sentivo da veramente tanto tempo), ho ascoltato le loro storie sul loro inizio dell’anno e mi sono dovuto ricredere tutt’insieme. Mi hanno raccontato qualcosa di veramente brutto, ombre sulla vita che al posto loro mi avrebbero soffocato. Senza preavviso, ho dovuto riconsiderare tutto ciò che avevo creduto riguardo al mio Gennaio. Non solo mi sono reso conto di non poter paragonare i miei problemi ai loro, ma come se non bastasse ho potuto vedere come entrambi affrontavano l’oscurità a testa alta. Ho parlato con due persone ammantate di dignità, corazzate contro il buio, che come instancabili guerrieri si facevano strada, un passo alla volta, attraverso le nebbie. Ho parlato con due persone che non si sono lasciate abbattere dalla vita, che stanno mostrando il coraggio di continuare a splendere quando tutto intorno a loro sembra essere diventato oscuro.

Come ho mai potuto, io, considerare brutto il mio inizio 2013? E come ho potuto permettere al malumore di sopraffarmi, quando c’è qualcuno che sta vivendo problemi maggiori a testa alta?

E’ stato un insegnamento, rapido e conciso. Non potevo permettermi di rovinare il mio tempo, il prezioso tempo della mia vita, crogiolandomi nel grigiore dei miei stessi pensieri. Ho deciso che avrei rivoltato tutto, perché se quelle persone ce l’hanno fatta, potevo farcela pure io. Ho deciso di prendere il meglio di ciò che capitava, di perdonare chi mi aveva fatto arrabbiare, sono pouto tornare a lavore al mio libro, ho alzato la mia soglia di attenzione e ho iniziato a passare quegli esami che non ero riuscito ad affrontare nella mia diversa configurazione mentale. Quando sono uscito dall’aula d’esame, quell’ultimo giorno, splendeva un sole quasi estivo sopra Palermo: “rivolgi lo sguardo al sole e le ombre cadranno alle tue spalle“, dice un proverbio Maori. Mai tanta saggezza condensata in una sola frase.

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Scrivo questo post principalmente per una ragione: per ricordare a me stesso del futuro, quando tornerò a leggerlo, che la soluzione migliore è sempre essere positivi. Finché riusciamo a camminare lungo la strada della luce, nessun problema è insormontabile, grande o piccolo che sia. E laddove resteranno le cicatrici, vi sarà sempre qualcuno o qualcosa pronto a lenirne il ricordo.

In un passo del mio secondo libro, scrissi questa frase: «La vita non avrebbe senso se ognuno di noi non avesse la forza, il desiderio e la volontà di difendere le proprie credenze e i propri ideali». Abbracciamo dunque spada e scudo e difendiamo il nostro diritto a vivere felici: non è qualcosa che ci regaleranno o che ci spetta per giustizia, perché la giustizia non è altro che un artificio umano, ma che ci tocca conquistare giorno per giorno.

Io sarò lì.

Aria d’acqua

Ho piazzato una sedia di fronte alla portafinestra che da sul balcone e ho spalancato la tenda per farmi investire dall’aria fredda, quasi invernale, che spira sulla città nei primi giorni di settembre. La pioggia cade fitta e ovatta la luce del sole, congelando il clima arido dei giorni appena trascorsi.

Ho sempre ritenuto che i periodi migliori dell’anno fossero quelli di transizione: quando l’inverno, che ha congelato il mondo, lascia le porte all’estate e quando dopo mesi di sole cocente si ritorna a respirare un po’ d’aria fresca senza dover attendere la sera e rimanere in riva al mare. E’ un gioco di luci e di ombre, di equilibri sia del corpo che dello spirito: ci godiamo la nostra stagione, finché il caldo o il freddo non sembrano essere sul punto di iniziare ad avvilirci, quindi Madre Natura interviene ribaltando le carte in tavola e concedendoci un nuovo piacere, prima che questo ci stanchi nuovamente. Siamo come dei bambini che giocano col mondo, mentre questo si evolve intorno a noi.

Diversi mesi fa, agli albori dell’estate, scrissi un post su quanto mi mancava la Parte Luminosa dell’anno, ed è per questo che ora, simmetricamente, avevo voglia di spendere due parole su quanto sia felice di sentire l’aria satura di acqua, questo vento che mi sta facendo gelare, di come -dopo mesi di luce ed energia- ora mi senta pronto ad accogliere la stagione in cui cerchiamo maggiormente il focolare di casa e di quanto sia contento di ritornare al lavoro dopo il riposo estivo.

Rammento alcune scene di quando ero bambino: correvo per le strade di un paesino con i miei amici, finché non ci sorprendeva il temporale. Era allora che correvamo a nasconderci sotto il palco di legno eretto nella piazza, osservando da laggiù il paese ricoperto dalle lacrime del cielo. Forse è questo l’effetto della pioggia: farci riprendere in mano i nostri pensieri e rammentarci sempre chi siamo mentre, a poco a poco, evolviamo verso nuovi soli.