Category: Memoria


C’è bellezza

Certe volte mi sembra che manchi qualcosa.
Non saprei descrivere cosa, nè a parole nè per immagini: è come fosse un insieme di frammenti che trovano il modo di incastrarsi, un miscuglio di emozioni che ogni tanto vibrano con la stessa frequenza di risonanza della mia anima, ed ecco allora che nel pieno di un’azione qualsiasi mi ritrovo ad alzare la testa, guardarmi intorno e… assaporare il momento, con una consapevolezza acutizzata dell’hic et nunc, il qui e ora. Non saprei dare un nome a questa cosa, nè cercare di spiegarla meglio: è come un flusso di vita invisibile, celato all’occhio e che fluisce tra le intercapedini della vita a colmare i margini tra una struttura e l’altra.
Mi manca qualcosa, almeno credo, e penso sia qualcosa di così banale da essere sotto gli occhi di tutti, un po’ come la respirazione involontaria: è qualcosa di così basilare e fondamentalmente indispensabile che la sua presenza passa persino inosservata. Non capisco cos’è, ma ogni tanto questa frase rintocca tra i miei pensieri mentre guardo la vita dispiegarsi intorno a me e le altre persone che vivono le proprie vite ai due margini della strada.
Mi sta sfuggendo qualcosa, ma non capisco cosa e lo cerco con lo sguardo. Lo cerco nel riverbero del crepuscolo sui tetti delle case secolari, lo cerco nel modo in cui le fronde ondeggiano al vento oceanico, lo cerco nelle espressioni della gente, lo cerco tra le stelle particolarmente visibili di questa notte di primavera, mentre riempio la strada della mia presenza silente. C’è una malinconia di sottofondo che mi irrigidisce le spalle e che continua a farmi domandare cosa stia dimenticando in tutto quel che ho fatto nel corso dell’ultimo anno, quello del cambiamento radicale che, in qualche maniera, mi ha condotto dalla parte opposta dell’Europa a guardare un cielo stellato che per qualche motivo non viene nascosto dalle luci della città.
Ma neanche oggi, nè il crepuscolo, nè il vento, nè gli astri mi danno una risposta. Forse non è lì che devo cercare, ma altrove.

La risposta mi giunge pochi giorni dopo, tanto effimera quanto la domanda.
Vago, a piedi, per una delle regioni più remote del Regno Unito. Il mio percorso mi conduce su e giù lungo una linea di colline costiere, il cui costone più esterno si protende verso il mare, tuffandosi direttamente nell’acqua zaffiro. Tra le faglie formate dalle scogliere, di tanto in tanto si nasconde una spiaggia antica quanto la terra stessa, mentre dei cartelli mi informano sulla presenza di alcuni relitti che giaccono, sepolti e indisturbati, sul fondo di quelle acque. I miei stivali scalpicciano mentre smuovono la ghiaia del sentiero, diretti verso le rovine di un’antico santuario che si erge sulla collina più alta e che più si protende sul mare: da lassù, tutto il mondo sembra a portata di mano. Mentre discendo e ritorno a seguire la linea costiera, una mandria di cavalli selvatici passa al galoppo a non molta distanza da me, correndo come il vento, le chiome svolazzanti e gli zoccoli rombanti mentre assaporano la libertà di quelle alture.

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Poi, ad un tratto, la spiaggia.
Non mi aspettavo nulla di simile: nel momento in cui gli scogli hanno iniziato a diradarsi, hanno lasciato il posto ad una spiaggia enorme. Vivendo in Sicilia, sono sempre stato abituato a spiagge lunghe e strette, mentre quella che mi si profilava davanti era sia lunga che larga: un centinaio di metri di sabbia compatta e pianeggiante si estendeva dalle radici del promontorio fino a raggiungere senza premura l’acqua ghiacciata che si stendeva all’orizzonte. Ho camminato sulla spiaggia con gli stivali legati allo zaino, alla sinistra il mare e alla destra il promontorio roccioso che nascondeva tutto il resto del mondo: tutto il mio universo si limitava a quella striscia di terra. Ricordo con vivida lucidità la felicità che ho provato nel percorrere quel posto, lasciare le mie impronte, bagnarmi nelle occasionali pozze d’acqua fredde come l’inverno.

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Ad un certo punto, mi sono distaccato dai miei compagni di viaggio e mi sono avvicinato al bagnasciuga. In quel momento c’eravamo solo io, il mare e una sensazione di libertà totale che si spandeva in qualunque direzione: ero in un punto casuale del mondo, vicino a nessun posto che chiamerei casa e avevo intorno a me lo spazio per fare qualunque cosa volessi. La sabbia era morbida, l’acqua fredda, il cielo sereno ma sul punto di scurirsi e spirava un vento leggero. Mi sono ritrovato a ridere da solo e poi a correre lungo il bagnasciuga. In quel momento sento di aver trovato una risposta effimera ad una domanda altrettanto sfuggente. Quel qualcosa che manca. Quella scintilla di energia che era nascosta chissà dove, invisibile dal punto in cui sono di solito. Non riuscirei a mettertelo in parole migliori di queste, ma se proprio dovessi sforzarmi di farlo penso che vi sia una felicità di fondo, nella creazione: molto in profondità, oltre strati e strati di sedimenti e altre cose. A volte è così nascosta che sembra non ci sia ma quel giorno, mentre ero totalmente libero, per un attimo l’ho sentita: proveniva dalla sabbia, dal mare, dal cielo e dalla spiaggia, contemporaneamente. Era come se avessi sofferto per tutto l’inverno a causa del mutismo della terra e quel dì ne avessi finalmente sentito nuovamente la voce, il canto. E so che c’è ancora, so che c’è qui in questa terra lontana da casa e che amo alla disperazione e se è qui vuol dire che è ovunque, anche sotto il cemento e i sedimenti delle giornate. Nemmeno il temporale scatenatosi dopo e che ci ha costretto a trovare rifugio tra le rocce è riuscito a cancellare il mio buonumore.

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Quel giorno ho imparato una lezione che ho trovato fondamentale per tutto il tempo a seguire: il mondo è pieno di bellezza. Sembrerà forse banale, ma prenderne piena consapevolezza è stato per me un passo importante che ha mutato la mia percezione di ciò che avevo quotidianamente intorno. Da allora ne ho visto molta altra: ho camminato su colline secolari, ho giocato con gli agnelli nella stagione delle nascite, ho scalato i tor per ammirare la vista dalla cima, ho percorso boschi e attraversato fiumi, ho rinvenuto ossa animali tra le pieghe della terra, mi sono seduto a meditare in circoli di pietra ancestrali lontani chilometri e chilometri da qualsiasi traccia di civiltà, ho osservato i cavalli correre e dormire, mi sono perso nelle nebbie più fitte.

Da quel giorno sulla spiaggia, quel qualcosa non manca più.
È, ovunque, Awen (/|\)

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Mi trovo in terra straniera, in luoghi inesplorati: una landa di pianure decorata da una cinta di monti innevati. È ancora presto quando ruoto la maniglia e mi dirigo fuori, inspirando una ringiovanente boccata d’aria, fredda e cristallina come acqua di sorgente in un ghiacciaio. Qua fuori, di domenica mattina, si ode unicamente il silenzio interrotto, ogni tanto, dal verso di un uccello nero che insegue la sua compagna. Il luogo dove alloggio è un vecchio monastero riconvertito in appartamenti monolocali: le pareti del chiostro interno sono state pitturate di bianco e una fila di tigli sono stati piantati a formare un giardino rettangolare. Nel pieno dell’autunno, questi alberi danno prova del loro soprannome, “winter orange”, sfoggiando una chioma vigorosamente arancione che contrasta nettamente con i tronchi neri che salgono verso il cielo, affondando le radici nel terreno fangoso. Ad una delle estremità del giardino campeggia la scultura sacra di una Madonna, bianca anch’essa, candida e in pace con ciò che ha intorno.

Avanzo nel silenzio, mentre il luogo rintocca campane d’armonia al centro del mio essere, e mi sposto in direzione degli alberi, prendendo posto tra di essi. Mi ritrovo circondato da una volta di foglie del colore dei limoni che lentamente, sotto l’influsso della stagione, si staccano dalle fronde e planano in aria, danzando intorno a me e alla statua che ho di fronte, prima di depositarsi a terra in un letto che ricopre interamente la pavimentazione del chiostro. Ancora una boccata d’aria, il freddo del nord che mi penetra nei polmoni, l’aria pura di quel santuario che mi purifica il corpo e l’anima. Per un attimo, nella quiete del primo mattino, chiudo gli occhi e divento quella statua, quegli alberi, quelle foglie e quegli uccelli. Per un attimo, inspirando quell’atmosfera raggelata, dimentico le ansie e le delusioni che mi hanno accompagnato nei giorni precedenti, così come lo stress del lavoro. Per un attimo riesco a ritrovare il mio centro, grazie ad un improbabile luogo nascosto tra le case cenerine e tutte simili che definiscono questa città squadrata e monocromatica. Riapro gli occhi e osservo quegli alberi che si ergono rigidi e flemmatici contro il cielo coperto da uno strato di placidi, grigi nembi che ovattano la luce del sole. Ho scoperto che c’è del piacere anche nella natura fredda, coperta nell’aria frizzante e pungente del settentrione, così differente dalla vegetazione con la quale sono vissuto in Sicilia: selvaggia e senza confini, un’esplosione colorata del più primigenio volto della terra. Colori di cui già sento la mancanza, ma che non troverebbero posto in questo luogo, così diverso ma a sua volta così esatto.

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Alzo il bavero del cappotto, rifugio le mani nel tepore delle tasche e dopo quei brevi minuti di meditazione ad occhi aperti ritorno verso i miei impegni quotidiani, il tacco delle mie scarpe che rintocca sulla pietra e riecheggia nella bianca serenità del mio alloggio.

Il tempio nella Terra

Sento la ghiaia crocchiare sotto le mie suole, mentre avanzo in salita con il vento contrario. Sopra di me capeggia una bella giornata: il cielo è inaspettatamente limpido per una giornata di Febbraio e non un rumore deturpa l’aria. Non lì, a trecento metri sopra la città, a trecento metri verso il cielo, immerso nel chiarore di un sole quasi primaverile che non trova ostacoli sul suo percorso.

Sto risalendo una strada che è sconosciuta ai più, immersa tra le pieghe della mia montagna preferita, quella che per me rimarrà uno degli spazi più sacri che conosca. I cespugli cresciuti disordinatamente, come a voler seguire la tradizione della natura selvaggia e indisciplinata che vive qui in Sicilia, mi sfiorano le braccia e mi accompagnano nell’ascesa. È strano fare questa strada da soli, penso. È la prima volta che mi capita.
Il sentiero termina e svolta verso sinistra, immettendosi nella mia destinazione: i resti dell’antica cava di pietra. Una gola si apre nel ventre della terra, rivelando al cielo l’intimità della roccia che si trova nel suo cuore. I raggi di luce, liquidi, scivolano sull’orlo del cratere frastagliato, immergendosi fino a dove le ombre non li contrastano. Mi trovo dinnanzi a questa mezzaluna scavata sul fianco della terra che si apre di fronte ai miei occhi, circondandomi su tutti i lati. Io rimango fermo dove sono, ad osservare il tempo che si è fermato: i ciuffi d’erba, gli alberi giovani e coraggiosi, i cumuli di macerie sotto le pareti levigate dalle mani di chi ha versato il sudore e la vita in quel luogo sconosciuto e silente, a trecento metri dal mondo. Resto ad abbracciare con lo sguardo quel posto che la natura sta lentamente e con pazienza tentando di riconquistare, colorando di verde ciò che prima era grigio, sotto il canto perenne del vento che trasporta i silenzi più reconditi e sacri.

Questo paesaggio è così ipnotico che mi ridesto dalla sua contemplazione solo qualche minuto dopo, quando il verso di un rapace, credo un falco pellegrino, si diffonde nell’aria, riecheggiando dentro la conca e vibrando contro le rocce. Riprendo a camminare per raggiungere il centro di quel luogo e senza volerlo mi trovo a rievocare gli spettri dei ricordi: cinque ragazzi che avanzavano lungo quella stessa terra ridendo e scherzando, uno scambio di colpi amichevoli con le spade d’allenamento, una lezione di valzer improvvisata dal nulla. Le note di quella musica ancora si spandono, nella mia memoria, dentro quella gola: un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre. Quando mi avvicino di più a quei fantasmi e provo a toccarli, tuttavia, essi evaporano davanti alle mie dita. Mi rendo conto di ciò che significa, di come sia diventato ormai difficile se non impossibile rimettere insieme quei pezzi per ripetere ciò che è stato. Ma forse, a ben pensarci, questo non è affatto necessario. Potrei dipingere nuovi colori sopra questa scena, ma non avrei che la blanda imitazione dell’originale. Forse è meglio semplicemente rimanere a contemplare i vecchi ricordi, senza disturbarli, lasciandoli lì dove sono: sono questi dopotutto i tasselli di ciò che siamo e, a differenza delle opere d’arte, non necessitano di restauro. Perlomeno, non i miei. Perlomeno, non questo.

A trecento metri in mezzo al verde, ma a soli tre passi dal mio cuore. Un-due-tre, un giro e poi di nuovo. Un-due-tre, dentro il tempio nella Terra.

Il tempo passa ed è ora di andare: mi volto e mi allontano, lentamente e con deferenza, verso il sentiero che mi ha condotto fino a qui. Scivolo fuori dalla penombra e mi immergo nuovamente nel sole, fermandomi solo per dare un’ultima occhiata alle mie spalle, alzando gli occhi verso la parete curva e inclinata che ho di fronte.
C’è un vecchio cane, silenzioso, che mi guarda da lassù.

Lacrime strappastorie

Lacrime strappastorie sui volti di chi ho intorno,

di chi riempie i margini del mio mondo,

di chi c’è ma non esiste,

come uno scenario che non persiste.

Oggi ero sul treno. Ho aspettato a lungo sul binario, sotto al freddo e al buio di un’inverno spazzato dai vapori delle vetture e disturbato dalle voci sintetiche degli altoparlanti. Il finestrino era leggermente condensato e non lasciva filtrare bene gli sprazzi di luce che si susseguivano uno dopo l’altro mentre la carrozza sferragliava sui binari fatiscenti. Annoiato, ho iniziato a guardare le persone che avevo intorno, quando in un impulso di scrittura ho preso un pezzo di carta e ho buttato giù quattro versi che parlano della mia giornata tipo: un viaggio in treno accanto a persone ogni giorno nuove e di cui non conoscerò mai le storie, seppur per ognuna mi sia concesso scorgerne un frammento di dieci minuti. Frammento che, alle volte, non è raccontato con le parole ma taciuto e lasciato narrare agli occhi.
Non ho trovato parole adeguate con cui circondarli.

È da molto che non scrivo sul Triskele. Quest’anno è stato veramente poco florido, per quanto riguarda la mia attività di scrittura, ma la verità è che ho preferito concentrarmi su altri aspetti della mia vita. Spero di aver fatto bene e di raccogliere presto i frutti di ciò in cui ho investito e continuo ad investire le mie energie, ma per il momento mi ritrovo sulla soglia del Natale a riflettere un po’ su ciò che è stato.

Quest’anno mi ha fatto comprendere due grandi cose, anche se in realtà non si tratta di niente di nuovo bensì semplicemente di promemoria che sembrano riproporsi costantemente davanti ai miei occhi. La prima è questa: la mia attività di scrittura sembra farsi carico degli stati d’animo negativi, più che quelli positivi. È una cosa su cui ho pensato molto e che non riesco ancora a capire completamente, ma nei periodi in cui sono più triste, ho dei problemi più grandi o sono semplicemente più carico di pensieri poco lieti, sembro riuscire a produrre molto di più rispetto a quando va tutto bene e non sono affetto da alcun tipo di preoccupazione. Mi chiedo perché ciò avvenga, anche se non riesco a trovare la risposta: può darsi che tenti di esorcizzare i miei stati d’animo peggiori attraverso la tastiera? Dalla premessa a questo articolo, se ne può facilmente intuire che questo 2015 è stato per me abbastanza positivo, ad eccezione di qualche spirale più bassa.
La seconda cosa che ho imparato dagli ultimi dodici mesi è che sembro aver perso definitivamente un po’ della stabilità che mi caratterizzava quattro o cinque anni fa. Non intendo approfondire l’argomento, perché ritengo che sia qualcosa di molto personale, ma mi basti trascrivere qui, per il mio stesso futuro, che quando si riesce ad adottare un comportamento più inflessibile e più egocentrico si ricevono in ritorno un minor numero di grattacapi. Non è una cosa carina nè un bell’insegnamento da tramandare, ma voglio essere molto schietto e ammettere che da quando ho iniziato a sbilanciarmi nei riguardi delle persone ne ho avuto solo a perdere. Questa considerazione esclude chiaramente il Prect en Rahkoon, il mio gruppo di amici e fratelli che anche quest’anno, forse il decimo da quando ci siamo conosciuti, continua a confermare come esso sia il più saldo e indissolubile punto di riferimento della mia vita, l’unico faro ancora in vista a mano a mano che solco acque sempre più profonde.

È stato un anno assolutamente incredibile per quanto riguarda uno dei due sogni più grandi della mia vita: sono riuscito, finalmente, a studiare i fondamenti dell’intelligenza artificiale e della robotica e anche a metterli in pratica. Ho potuto toccare con mano questa scienza che tanto avevo desiderato conoscere e ho potuto assistere a conferenze, conoscere nuova gente, ottenere spunti di riflessione e modificare in maniera sostanziale e fondamentale l’approccio alla mia professione, conferendogli una direzione ben precisa. Ho anche aperto un nuovo blog, su cui ho dedicato più tempo che sul Triskele: Clockwork Humans, dove insieme ad una piccola redazione ho iniziato a parlare sul rapporto tra gli esseri umani, i robot e le macchine intelligenti che giorno dopo giorno assumono ruoli sempre più importanti nella nostra realtà quotidiana.

PSX_20151224_221343Infine, una piccola riflessione di chiusura dell’anno. Più passa il tempo, più mi sembra che questo scorra velocemente: è un po’ come se la vita fosse soggetta ad un’accelerazione che aumenti gradualmente con l’aumentare dell’età. Di questo passo, mi chiedo che effetto farà essere anziani: saranno le giornate ancora più corte o, al contrario, quest’accelerazione si rivelerà avere la forma di una campana che discenderà dopo aver raggiunto il picco e tornerò dunque a percepire il tempo in maniera più lenta, come mi accadeva quando ero bambino e spensierato? Chissà. Eppure so che c’è qualcosa che sta cambiando e che non tornerà mai come prima: questo Natale è troppo quieto, le mura di questa casa sono troppo silenziose e non si sentono più le voci che solevano riempirla in passato. C’è un freddo intenso che permea dall’esterno e che io tento di combattere inerzialmente semplicemente osservando fuori dalla finestra, verso la misera skyline di palazzi bassi e fatiscenti costellati di puntini di luce. Osservo quelle finestre lontane e per un attimo desidererei solo dissolvermi, smettere di percepire questo freddo e tutto me stesso e diventare, per un solo momento, un semplicissimo spettatore che possa viaggiare di casa in casa ad imparare cos’è la vita da coloro che non conosce. Anche solo per un istante, poter leggere le storie di queste persone, sapere cosa si prova ad essere qualcos’altro, a vivere in altri luoghi, a fare altre cose. Purtroppo però, molto prevedibilmente, non mi dissolvo nè il freddo si attenua, non riesco a transitare dal lato dello spettatore, nè conoscerò mai la miriade di storie che tutta questa gente con cui mai parlerò sarebbe in grado di raccontarmi. Resto ad assaporare ancora per un po’ questa consapevolezza, dunque con un mezzo sorriso malinconico spengo la luce e, accompagnato dal fioco baluginio delle luci sull’albero di Natale, mi allontano dalla finestra, ritornando al silenzio di queste mura dove appartengo.

Buon Natale 2015 e buon anno nuovo a tutti i miei lettori.

Partenze

2015-09-29 20.49.47Alla fine, tutto si riduce a questo. Una vita e un mondo ristretti ad un attimo e a un quadrato di pochi metri di spazio. In piedi sulla banchina, quando il sole è ormai calato all’orizzonte e il vento sempre più freddo dell’autunno impellente inizia a soffiare, mi ritrovo a guardare la nave che salpa e che, solcando le acque, si allontana dal porto. È questo il momento cruciale, la singolarità dell’esistenza: una nave che parte. La vera differenza è nel dove ci si trova, quando i motori iniziano a girare: se a bordo o a terra. Stavolta io rimango sul molo e osservo un’intera parte della mia vita che si allontana verso un futuro più splendente.

Ci sono quelle cose, nel corso degli anni, che arriviamo a bollare con l’etichettà “succederà”. Certe cose che sappiamo bene che dovranno accadere, prima o poi, ma con cui decidiamo di non fare i conti, vuoi per paura, vuoi perché tendiamo a vivere la vita troppo alla giornata: impegni a lungo termine, scadenze, punti di confine dell’esistenza. A volte sono i nostri, a volte quelli degli altri, ma in ogni caso da lì in poi non si torna indietro. È un bene che sia così: questo assicura la nostra personalissima evoluzione, ma ciò non vuol dire che non possa lasciare addosso il sapore della malinconia e ricordi in color seppia che riempiono la totalità della propria vita.

La fatalità dell’esistenza non è altro che una scintilla nella notte: un rapido fulgore e, dopo, la cenere. Ma chi ammira il lampo non dimentica mai la luce. E tu, più di ognuno, eri e sei la luce.
Ciao, Peppe.

Ormai che ci siamo

È una notte d’estate, ma di questo poco importa: il vento corre tra i lampioni e nelle strade, scompigliandomi i capelli mentre osservo la quiete tipica delle ore più piccole. In un modo o nell’altro, è sempre colpa della notte, in qualunque stagione ci si trovi: è quasi come se il cervello si riattivasse solo dopo il calar del sole, quando «tace il rumore della folla e termina il linciaggio delle ore».

Sono quasi quattro mesi che non metto mano a questo blog. Sto avendo la conferma di un’idea che avevo già maturato in passato: per quanto mi riguarda, le emozioni negative sono catalizzatori più efficaci per l’Arte di quanto non lo siano quelle positive. Sta di fatto che negli ultimi tempi sono stato davvero bene con me stesso e ho portato avanti il mio processo di guarigione da tutto il male che avevo assorbito negli ultimi due anni, dunque non ho sentito la necessità di scrivere.

Mi sto rendendo conto che più si va avanti e più spesso mi imbatto in quei momenti in cui si posa la penna e ci si allontana dal foglio, per controllare che tutto vada bene, per valutare la distanza dalla partenza e per stimare quella dalla destinazione. Questa è una di quelle notti in cui, invece di riuscire a dormire, sto facendo i conti con il mio viaggio. Mi sento oberato di lavoro e di responsabilità e per nulla vicino alla meta. Se mi guardo intorno, non riesco a vedere nè l’inizio nè la fine, ma solo un vasto pianoro dove si stendono le cause e gli effetti di ciò che ho e di ciò che sono in questo esatto momento, oltre a tutte le vie che posso percorrere nell’immediato futuro. Forse per la prima volta in vita mia, mi sento veramente stanco, la stanchezza del tipo che ti si annida nel profondo e che ti degrada lentamente, in modo graduale ma invisibile. Lo noto dal modo in cui mi muovo, dalla fluidità dei miei pensieri, dalle mie reazioni agli eventi, dal fatto che mi ritrovo spesso con una mano poggiata sulla fronte, intento a ragionare, calcolare, fare spazio, organizzare, pianificare, risolvere problemi. Il tempo, è sempre quello il problema! Forse, per la prima volta in vita mia, sento di aver bisogno di distaccarmi da tutto questo per poter prendere un respiro profondo, di inspirare aria non inquinata dalla mia quotidianità.

C’è una verità che, tuttavia, mi viene rammentata. Abbiamo fatto tanta fatica per arrivare a questo punto: ormai che ci siamo, tanto vale arrivare in cima. Sento le energie cedere, ma sotto la corazza scalfita dai colpi dei sassi trasportati dalla corrente con cui mi scontro mentre cerco di risalire il fiume, c’è ancora un cuore che batte con la stessa, rinnovata, forza. Perché quella cima, che per molti può essere solo una sporgenza di roccia, per me significa tutto e non riuscire mai a raggiungerla mi terrorizza più di quanto non lo faccia nient’altro al mondo. Inoltre, mi dicono che la vista sia magnifica.

Carpe diem

Alba_con_rugiadaCi sono quelle albe maledette che, un paio di volte nella vita, ti appesantiscono l’anima anziché alleggerirla. Sono quelle albe che non sorgono insieme a te, ma che anzi ti trovano, lento e assonnato, a camminare sulla strada per casa con i capelli sfatti e un’espressione a metà tra il felice e il pensieroso. Sono quelle albe che seguono notti così intense, così piene di emozioni, così tirate verso il limite dell’umana comprensione e capacità di accettazione che rendono palese il fatto che, qualunque cosa possa accadere il giorno successivo, non sarà mai neanche lontanamente paragonabile a quanto è già accaduto. Quelle albe segnano una sorta di limite: sono una sottile linea di confine che appare nell’esatto momento in cui il passato è troppo pieno e il futuro troppo vuoto, mentre il presente è ridotto ad un mero periodo di transizione carico di speranze. Eppure, io so già di aver fatto il passo più lungo della gamba e so bene che, quando la parte migliore si presenta all’inizio, significa che ciò che rimane della strada è il tratto in salita.

Consapevole di tutto ciò, prima di aprire il cancelletto di casa mi volto e poggio la schiena contro l’inferriata carica del freddo della notte appena dissoltasi, per poi lasciarmi scivolare lentamente a terra, sedendomi contro il gradino. Intorno a me, riparte la vita: la gente esce di casa, ancora assonnata, ed entra in auto per dirigersi al lavoro. Qualche uccello si leva nel cielo ancora sonnecchiante e i suoni del mondo, a poco a poco, si risvegliano. Io, però, non ho voglia di unirmi a loro. Ho bisogno, semplicemente, di ripetermi due parole: carpe diem.
Qualche mese fa scrissi che «la spettacolarità dell’esistenza è la consapevolezza di essere padroni di un momento unico e prossimo a sparire». Oggi, penso che avevo dannatamente ragione ma che non avevo preso in considerazione ciò che accade quando quel momento è ormai scomparso, rimanendo solo un ricordo.
Osservo il cielo bluastro che precede l’apparizione del sole e penso che da ora inizieranno i problemi. Ancora una volta.

“Guess it’s true, I’m not good at a one-night stand
But I still need love ‘cause I’m just a man
These nights never seem to go to plan
I don’t want you to leave, will you hold my hand?

Oh, won’t you stay with me?
‘Cause you’re all I need
This ain’t love, it’s clear to see
But darling, stay with me

Why am I so emotional?
No, it’s not a good look, gain some self-control
And deep down I know this never works
But you can lay with me so it doesn’t hurt”

–Sam Smith