Category: Riflessione


C’è bellezza

Certe volte mi sembra che manchi qualcosa.
Non saprei descrivere cosa, nè a parole nè per immagini: è come fosse un insieme di frammenti che trovano il modo di incastrarsi, un miscuglio di emozioni che ogni tanto vibrano con la stessa frequenza di risonanza della mia anima, ed ecco allora che nel pieno di un’azione qualsiasi mi ritrovo ad alzare la testa, guardarmi intorno e… assaporare il momento, con una consapevolezza acutizzata dell’hic et nunc, il qui e ora. Non saprei dare un nome a questa cosa, nè cercare di spiegarla meglio: è come un flusso di vita invisibile, celato all’occhio e che fluisce tra le intercapedini della vita a colmare i margini tra una struttura e l’altra.
Mi manca qualcosa, almeno credo, e penso sia qualcosa di così banale da essere sotto gli occhi di tutti, un po’ come la respirazione involontaria: è qualcosa di così basilare e fondamentalmente indispensabile che la sua presenza passa persino inosservata. Non capisco cos’è, ma ogni tanto questa frase rintocca tra i miei pensieri mentre guardo la vita dispiegarsi intorno a me e le altre persone che vivono le proprie vite ai due margini della strada.
Mi sta sfuggendo qualcosa, ma non capisco cosa e lo cerco con lo sguardo. Lo cerco nel riverbero del crepuscolo sui tetti delle case secolari, lo cerco nel modo in cui le fronde ondeggiano al vento oceanico, lo cerco nelle espressioni della gente, lo cerco tra le stelle particolarmente visibili di questa notte di primavera, mentre riempio la strada della mia presenza silente. C’è una malinconia di sottofondo che mi irrigidisce le spalle e che continua a farmi domandare cosa stia dimenticando in tutto quel che ho fatto nel corso dell’ultimo anno, quello del cambiamento radicale che, in qualche maniera, mi ha condotto dalla parte opposta dell’Europa a guardare un cielo stellato che per qualche motivo non viene nascosto dalle luci della città.
Ma neanche oggi, nè il crepuscolo, nè il vento, nè gli astri mi danno una risposta. Forse non è lì che devo cercare, ma altrove.

La risposta mi giunge pochi giorni dopo, tanto effimera quanto la domanda.
Vago, a piedi, per una delle regioni più remote del Regno Unito. Il mio percorso mi conduce su e giù lungo una linea di colline costiere, il cui costone più esterno si protende verso il mare, tuffandosi direttamente nell’acqua zaffiro. Tra le faglie formate dalle scogliere, di tanto in tanto si nasconde una spiaggia antica quanto la terra stessa, mentre dei cartelli mi informano sulla presenza di alcuni relitti che giaccono, sepolti e indisturbati, sul fondo di quelle acque. I miei stivali scalpicciano mentre smuovono la ghiaia del sentiero, diretti verso le rovine di un’antico santuario che si erge sulla collina più alta e che più si protende sul mare: da lassù, tutto il mondo sembra a portata di mano. Mentre discendo e ritorno a seguire la linea costiera, una mandria di cavalli selvatici passa al galoppo a non molta distanza da me, correndo come il vento, le chiome svolazzanti e gli zoccoli rombanti mentre assaporano la libertà di quelle alture.

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Poi, ad un tratto, la spiaggia.
Non mi aspettavo nulla di simile: nel momento in cui gli scogli hanno iniziato a diradarsi, hanno lasciato il posto ad una spiaggia enorme. Vivendo in Sicilia, sono sempre stato abituato a spiagge lunghe e strette, mentre quella che mi si profilava davanti era sia lunga che larga: un centinaio di metri di sabbia compatta e pianeggiante si estendeva dalle radici del promontorio fino a raggiungere senza premura l’acqua ghiacciata che si stendeva all’orizzonte. Ho camminato sulla spiaggia con gli stivali legati allo zaino, alla sinistra il mare e alla destra il promontorio roccioso che nascondeva tutto il resto del mondo: tutto il mio universo si limitava a quella striscia di terra. Ricordo con vivida lucidità la felicità che ho provato nel percorrere quel posto, lasciare le mie impronte, bagnarmi nelle occasionali pozze d’acqua fredde come l’inverno.

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Ad un certo punto, mi sono distaccato dai miei compagni di viaggio e mi sono avvicinato al bagnasciuga. In quel momento c’eravamo solo io, il mare e una sensazione di libertà totale che si spandeva in qualunque direzione: ero in un punto casuale del mondo, vicino a nessun posto che chiamerei casa e avevo intorno a me lo spazio per fare qualunque cosa volessi. La sabbia era morbida, l’acqua fredda, il cielo sereno ma sul punto di scurirsi e spirava un vento leggero. Mi sono ritrovato a ridere da solo e poi a correre lungo il bagnasciuga. In quel momento sento di aver trovato una risposta effimera ad una domanda altrettanto sfuggente. Quel qualcosa che manca. Quella scintilla di energia che era nascosta chissà dove, invisibile dal punto in cui sono di solito. Non riuscirei a mettertelo in parole migliori di queste, ma se proprio dovessi sforzarmi di farlo penso che vi sia una felicità di fondo, nella creazione: molto in profondità, oltre strati e strati di sedimenti e altre cose. A volte è così nascosta che sembra non ci sia ma quel giorno, mentre ero totalmente libero, per un attimo l’ho sentita: proveniva dalla sabbia, dal mare, dal cielo e dalla spiaggia, contemporaneamente. Era come se avessi sofferto per tutto l’inverno a causa del mutismo della terra e quel dì ne avessi finalmente sentito nuovamente la voce, il canto. E so che c’è ancora, so che c’è qui in questa terra lontana da casa e che amo alla disperazione e se è qui vuol dire che è ovunque, anche sotto il cemento e i sedimenti delle giornate. Nemmeno il temporale scatenatosi dopo e che ci ha costretto a trovare rifugio tra le rocce è riuscito a cancellare il mio buonumore.

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Quel giorno ho imparato una lezione che ho trovato fondamentale per tutto il tempo a seguire: il mondo è pieno di bellezza. Sembrerà forse banale, ma prenderne piena consapevolezza è stato per me un passo importante che ha mutato la mia percezione di ciò che avevo quotidianamente intorno. Da allora ne ho visto molta altra: ho camminato su colline secolari, ho giocato con gli agnelli nella stagione delle nascite, ho scalato i tor per ammirare la vista dalla cima, ho percorso boschi e attraversato fiumi, ho rinvenuto ossa animali tra le pieghe della terra, mi sono seduto a meditare in circoli di pietra ancestrali lontani chilometri e chilometri da qualsiasi traccia di civiltà, ho osservato i cavalli correre e dormire, mi sono perso nelle nebbie più fitte.

Da quel giorno sulla spiaggia, quel qualcosa non manca più.
È, ovunque, Awen (/|\)

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Mi trovo in terra straniera, in luoghi inesplorati: una landa di pianure decorata da una cinta di monti innevati. È ancora presto quando ruoto la maniglia e mi dirigo fuori, inspirando una ringiovanente boccata d’aria, fredda e cristallina come acqua di sorgente in un ghiacciaio. Qua fuori, di domenica mattina, si ode unicamente il silenzio interrotto, ogni tanto, dal verso di un uccello nero che insegue la sua compagna. Il luogo dove alloggio è un vecchio monastero riconvertito in appartamenti monolocali: le pareti del chiostro interno sono state pitturate di bianco e una fila di tigli sono stati piantati a formare un giardino rettangolare. Nel pieno dell’autunno, questi alberi danno prova del loro soprannome, “winter orange”, sfoggiando una chioma vigorosamente arancione che contrasta nettamente con i tronchi neri che salgono verso il cielo, affondando le radici nel terreno fangoso. Ad una delle estremità del giardino campeggia la scultura sacra di una Madonna, bianca anch’essa, candida e in pace con ciò che ha intorno.

Avanzo nel silenzio, mentre il luogo rintocca campane d’armonia al centro del mio essere, e mi sposto in direzione degli alberi, prendendo posto tra di essi. Mi ritrovo circondato da una volta di foglie del colore dei limoni che lentamente, sotto l’influsso della stagione, si staccano dalle fronde e planano in aria, danzando intorno a me e alla statua che ho di fronte, prima di depositarsi a terra in un letto che ricopre interamente la pavimentazione del chiostro. Ancora una boccata d’aria, il freddo del nord che mi penetra nei polmoni, l’aria pura di quel santuario che mi purifica il corpo e l’anima. Per un attimo, nella quiete del primo mattino, chiudo gli occhi e divento quella statua, quegli alberi, quelle foglie e quegli uccelli. Per un attimo, inspirando quell’atmosfera raggelata, dimentico le ansie e le delusioni che mi hanno accompagnato nei giorni precedenti, così come lo stress del lavoro. Per un attimo riesco a ritrovare il mio centro, grazie ad un improbabile luogo nascosto tra le case cenerine e tutte simili che definiscono questa città squadrata e monocromatica. Riapro gli occhi e osservo quegli alberi che si ergono rigidi e flemmatici contro il cielo coperto da uno strato di placidi, grigi nembi che ovattano la luce del sole. Ho scoperto che c’è del piacere anche nella natura fredda, coperta nell’aria frizzante e pungente del settentrione, così differente dalla vegetazione con la quale sono vissuto in Sicilia: selvaggia e senza confini, un’esplosione colorata del più primigenio volto della terra. Colori di cui già sento la mancanza, ma che non troverebbero posto in questo luogo, così diverso ma a sua volta così esatto.

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Alzo il bavero del cappotto, rifugio le mani nel tepore delle tasche e dopo quei brevi minuti di meditazione ad occhi aperti ritorno verso i miei impegni quotidiani, il tacco delle mie scarpe che rintocca sulla pietra e riecheggia nella bianca serenità del mio alloggio.

È da molto che non scrivo sul Triskele. Quest’anno è stato veramente poco florido, per quanto riguarda la mia attività di scrittura, ma la verità è che ho preferito concentrarmi su altri aspetti della mia vita. Spero di aver fatto bene e di raccogliere presto i frutti di ciò in cui ho investito e continuo ad investire le mie energie, ma per il momento mi ritrovo sulla soglia del Natale a riflettere un po’ su ciò che è stato.

Quest’anno mi ha fatto comprendere due grandi cose, anche se in realtà non si tratta di niente di nuovo bensì semplicemente di promemoria che sembrano riproporsi costantemente davanti ai miei occhi. La prima è questa: la mia attività di scrittura sembra farsi carico degli stati d’animo negativi, più che quelli positivi. È una cosa su cui ho pensato molto e che non riesco ancora a capire completamente, ma nei periodi in cui sono più triste, ho dei problemi più grandi o sono semplicemente più carico di pensieri poco lieti, sembro riuscire a produrre molto di più rispetto a quando va tutto bene e non sono affetto da alcun tipo di preoccupazione. Mi chiedo perché ciò avvenga, anche se non riesco a trovare la risposta: può darsi che tenti di esorcizzare i miei stati d’animo peggiori attraverso la tastiera? Dalla premessa a questo articolo, se ne può facilmente intuire che questo 2015 è stato per me abbastanza positivo, ad eccezione di qualche spirale più bassa.
La seconda cosa che ho imparato dagli ultimi dodici mesi è che sembro aver perso definitivamente un po’ della stabilità che mi caratterizzava quattro o cinque anni fa. Non intendo approfondire l’argomento, perché ritengo che sia qualcosa di molto personale, ma mi basti trascrivere qui, per il mio stesso futuro, che quando si riesce ad adottare un comportamento più inflessibile e più egocentrico si ricevono in ritorno un minor numero di grattacapi. Non è una cosa carina nè un bell’insegnamento da tramandare, ma voglio essere molto schietto e ammettere che da quando ho iniziato a sbilanciarmi nei riguardi delle persone ne ho avuto solo a perdere. Questa considerazione esclude chiaramente il Prect en Rahkoon, il mio gruppo di amici e fratelli che anche quest’anno, forse il decimo da quando ci siamo conosciuti, continua a confermare come esso sia il più saldo e indissolubile punto di riferimento della mia vita, l’unico faro ancora in vista a mano a mano che solco acque sempre più profonde.

È stato un anno assolutamente incredibile per quanto riguarda uno dei due sogni più grandi della mia vita: sono riuscito, finalmente, a studiare i fondamenti dell’intelligenza artificiale e della robotica e anche a metterli in pratica. Ho potuto toccare con mano questa scienza che tanto avevo desiderato conoscere e ho potuto assistere a conferenze, conoscere nuova gente, ottenere spunti di riflessione e modificare in maniera sostanziale e fondamentale l’approccio alla mia professione, conferendogli una direzione ben precisa. Ho anche aperto un nuovo blog, su cui ho dedicato più tempo che sul Triskele: Clockwork Humans, dove insieme ad una piccola redazione ho iniziato a parlare sul rapporto tra gli esseri umani, i robot e le macchine intelligenti che giorno dopo giorno assumono ruoli sempre più importanti nella nostra realtà quotidiana.

PSX_20151224_221343Infine, una piccola riflessione di chiusura dell’anno. Più passa il tempo, più mi sembra che questo scorra velocemente: è un po’ come se la vita fosse soggetta ad un’accelerazione che aumenti gradualmente con l’aumentare dell’età. Di questo passo, mi chiedo che effetto farà essere anziani: saranno le giornate ancora più corte o, al contrario, quest’accelerazione si rivelerà avere la forma di una campana che discenderà dopo aver raggiunto il picco e tornerò dunque a percepire il tempo in maniera più lenta, come mi accadeva quando ero bambino e spensierato? Chissà. Eppure so che c’è qualcosa che sta cambiando e che non tornerà mai come prima: questo Natale è troppo quieto, le mura di questa casa sono troppo silenziose e non si sentono più le voci che solevano riempirla in passato. C’è un freddo intenso che permea dall’esterno e che io tento di combattere inerzialmente semplicemente osservando fuori dalla finestra, verso la misera skyline di palazzi bassi e fatiscenti costellati di puntini di luce. Osservo quelle finestre lontane e per un attimo desidererei solo dissolvermi, smettere di percepire questo freddo e tutto me stesso e diventare, per un solo momento, un semplicissimo spettatore che possa viaggiare di casa in casa ad imparare cos’è la vita da coloro che non conosce. Anche solo per un istante, poter leggere le storie di queste persone, sapere cosa si prova ad essere qualcos’altro, a vivere in altri luoghi, a fare altre cose. Purtroppo però, molto prevedibilmente, non mi dissolvo nè il freddo si attenua, non riesco a transitare dal lato dello spettatore, nè conoscerò mai la miriade di storie che tutta questa gente con cui mai parlerò sarebbe in grado di raccontarmi. Resto ad assaporare ancora per un po’ questa consapevolezza, dunque con un mezzo sorriso malinconico spengo la luce e, accompagnato dal fioco baluginio delle luci sull’albero di Natale, mi allontano dalla finestra, ritornando al silenzio di queste mura dove appartengo.

Buon Natale 2015 e buon anno nuovo a tutti i miei lettori.

Ormai che ci siamo

È una notte d’estate, ma di questo poco importa: il vento corre tra i lampioni e nelle strade, scompigliandomi i capelli mentre osservo la quiete tipica delle ore più piccole. In un modo o nell’altro, è sempre colpa della notte, in qualunque stagione ci si trovi: è quasi come se il cervello si riattivasse solo dopo il calar del sole, quando «tace il rumore della folla e termina il linciaggio delle ore».

Sono quasi quattro mesi che non metto mano a questo blog. Sto avendo la conferma di un’idea che avevo già maturato in passato: per quanto mi riguarda, le emozioni negative sono catalizzatori più efficaci per l’Arte di quanto non lo siano quelle positive. Sta di fatto che negli ultimi tempi sono stato davvero bene con me stesso e ho portato avanti il mio processo di guarigione da tutto il male che avevo assorbito negli ultimi due anni, dunque non ho sentito la necessità di scrivere.

Mi sto rendendo conto che più si va avanti e più spesso mi imbatto in quei momenti in cui si posa la penna e ci si allontana dal foglio, per controllare che tutto vada bene, per valutare la distanza dalla partenza e per stimare quella dalla destinazione. Questa è una di quelle notti in cui, invece di riuscire a dormire, sto facendo i conti con il mio viaggio. Mi sento oberato di lavoro e di responsabilità e per nulla vicino alla meta. Se mi guardo intorno, non riesco a vedere nè l’inizio nè la fine, ma solo un vasto pianoro dove si stendono le cause e gli effetti di ciò che ho e di ciò che sono in questo esatto momento, oltre a tutte le vie che posso percorrere nell’immediato futuro. Forse per la prima volta in vita mia, mi sento veramente stanco, la stanchezza del tipo che ti si annida nel profondo e che ti degrada lentamente, in modo graduale ma invisibile. Lo noto dal modo in cui mi muovo, dalla fluidità dei miei pensieri, dalle mie reazioni agli eventi, dal fatto che mi ritrovo spesso con una mano poggiata sulla fronte, intento a ragionare, calcolare, fare spazio, organizzare, pianificare, risolvere problemi. Il tempo, è sempre quello il problema! Forse, per la prima volta in vita mia, sento di aver bisogno di distaccarmi da tutto questo per poter prendere un respiro profondo, di inspirare aria non inquinata dalla mia quotidianità.

C’è una verità che, tuttavia, mi viene rammentata. Abbiamo fatto tanta fatica per arrivare a questo punto: ormai che ci siamo, tanto vale arrivare in cima. Sento le energie cedere, ma sotto la corazza scalfita dai colpi dei sassi trasportati dalla corrente con cui mi scontro mentre cerco di risalire il fiume, c’è ancora un cuore che batte con la stessa, rinnovata, forza. Perché quella cima, che per molti può essere solo una sporgenza di roccia, per me significa tutto e non riuscire mai a raggiungerla mi terrorizza più di quanto non lo faccia nient’altro al mondo. Inoltre, mi dicono che la vista sia magnifica.

Parole

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La parola è lo strumento più potente che sia mai stato concesso all’uomo.

Spesso e volentieri la prendiamo per scontata e ciò ci porta a sottovalutarla, ma se solo ci fermassimo a riflettere su quanta potenza è trattenuta al suo interno, avremmo di che riconsiderarla. Non stiamo parlando di un mero artifizio del linguaggio, sia esso scritto o parlato: la parola è molto più di questo, riesce a smuovere energie e a modellare il mondo intorno a noi, contribuendo alla costruzione del grandissimo puzzle visibile e invisibile nel quale ogni giorno ci muoviamo.

Tale è la potenza delle parole, visive o sonore: separano l’immaginario dal reale, il frutto della mente dalle entità del mondo, l’inesistente dall’esistente. Una volta che vengono pronunciate, o scritte, non possiamo più ignorarle come se fossero pensieri volatili, perché da quel momento ci sono. Nel momento in cui esse fuoriescono da noi per entrare nel mondo, in un certo qual senso lo cambiano per sempre, rendendoci allo stesso tempo creatori, modellatori e distruttori. Basta pensare alle parole che hanno cambiato il mondo, che hanno smosso le masse, che hanno trasformato la storia dell’umanità. Le parole possono ispirare e demotivare, farci fare i conti con noi stessi, aprire e chiudere orizzonti. Gli uomini vivono e muoiono per delle parole, sono disposti a battersi per esse e solo perché, dopo essere nate nella mente di qualcuno, sono state messe al mondo e, così facendo, rese reali.

Ed io mi osservo nello specchio, seduto nella penombra della mia stanza nel cuore della notte: la camicia sbottonata, una mano tra i capelli, la manica aperta che ne copre il dorso, l’aria stanca e un sospiro tra le labbra.
Le parole, queste maledette.

Parole

142310473_d2348bcec9_oC’è qualcosa di diverso nel mondo contenuto in questo finestrino opaco, su un treno fatiscente che percorre la Sicilia.
Non è il paesaggio esterno, perché quello è quasi immutato da quando ne ho memoria. Non è neanche il susseguirsi della ruota delle stagioni: fuori cala la notte, il buio permea le strade e l’illuminazione artificiale giallastra si riflette sull’asfalto e rischiara debolmente e in modo freddo le auto che passano di corsa, senza tempo, senza spazio.

Sono io, è il mio riflesso ad essere diverso.

Guardo una figura in piedi, in fila con le altre persone che attendono che il treno si fermi in stazione e ci faccia scendere. Guardo una figura che si sovrappone alle luci notturne della città, mescolandosi con esse, e penso: «Quello non sono io».
Allora continuo a guardarla e cerco di capire cos’è che mi sta trasmettendo questa strana sensazione, improvvisamente e senza alcun dubbio. Forse è la postura: è per caso cambiata nel corso degli ultimi mesi? Oppure è la barba, può darsi che sia vero che rende più vecchi come tutti dicono. Magari ancora è la camicia che mi dona un’aspetto più serio, più formale, a cui ancora non mi sono abituato. Ancora, potrebbero essere tutte queste cose messe insieme. Immagino che la nostra percezione di noi stessi sia un sistema non lineare in cui il totale è maggiore della somma delle parti.

So solo che ho sempre odiato il fatto di sembrare più piccolo di quanto in realtà io non sia: la gente continua a darmi dai diciotto ai vent’anni e questo influenza il peso che attribuiscono alle mie parole. Ma presumo che, a questo punto, io dovrei aver capito il mio errore: il modo in cui ci presentiamo al mondo è solo una proiezione pesata del nostro essere interiore. Quello che non avevo ancora capito è che dovevo attuare un drastico cambiamento interiore e che quello esteriore sarebbe giunto di conseguenza. Tuttavia, non si realizzano cambiamenti del genere senza un buon motivo ed è proprio in questo periodo che io sento il bisogno di cambiare, perché non ho più voglia di qualcosa di vecchio e consolidato che mi porto dentro. Perché alle volte, come questa, vorrei davvero essere una persona peggiore di quella che sono, perché la vita è più facile se sei uno stronzo patentato. Ma il mio problema è proprio questo: anche se ci provo, non riesco a smuovermi dalla mia struttura e ricado sempre in ciò che sono: un povero idiota disposto a sacrificare sè stesso per ciò che gli sta a cuore, in un mondo dove i sacrifici passano inosservati dietro il caos delle auto, dei treni, dei bus, degli impegni e degli orari, dei social network, dei “mi piace” e delle corse sfrenate.

Improvvisamente, ho capito!

Sono gli occhi.
Già: sono quelli ad essere diversi. Mi stanno guardando in un modo… strano. Nuovo. Come se lo sguardo riflesso non fosse il mio. Ho l’insolita sensazione che colui il quale risponde al mio contatto visivo sia una mia versione del futuro. Una versione che non capisco se mi piaccia o meno: quegli occhi sembrano più saggi, più vissuti, ma hanno un peso che sembra gravare su di eyeloro dall’interno. Quegli occhi mi parlano di altro: di un tipo di dolore che non avevo mai conosciuto e che sono stato costretto a sperimentare. Di una sfaccettatura della vita di cui non conoscevo proprio niente e a cui mi sono dovuto abituare in un tempo relativamente stretto. Di processi mentali, a volte piacevoli ed altre volte meno, a cui non mi ero mai sottoposto, a pensieri contro cui non avevo mai dovuto fare i conti, con sensazioni e percezioni che vanno da quello di un caldo focolare che riscalda il cuore a quello di una vipera che serra il petto.

Però riuscite a pensate a quale paradosso sia l’occhio che guarda sè stesso? Non dovrebbe essere considerato qualcosa di innaturale?

Nel frattempo il treno si ferma e io dò un’ultima occhiata a quel Samuele che mi osserva, stanco, dal finestrino. Mi muovo e, insieme a me, scompare anche lui. Metto piede nella città ammantata di quella luce artificiale e respiro a fondo, massaggiandomi la radice del naso.

Ho bisogno di silenzio.

Scogliera al tramonto

Avevo altre cose da fare.
Posti dove andare, gente da sentire, telefonate da comporre, quadernoni da riempire, codici da scrivere. Ero pieno di impegni, in effetti, ma devo ammettere di essermi reso conto che se fossi sparito per qualche ora non avrei fatto un torto a nessuno, tranne che a me stesso. Dunque, ho girato il volante nella direzione opposta e ho cambiato strada.

Questo posto è solo leggermente fuori mano, ma resta sempre una tappa imperdibile almeno una volta durante l’estate. Il paesino non è nulla di che, ma in fondo ad una strada pedonale, al di là di un recinto di legno e un sentiero nella terra, si trova una scogliera di incredibile bellezza. È lì che mi sono diretto, mentre il sole si accingeva a tramontare, lentamente e inesorabilmente. Sulla cima della salita si trova un piccolo santuario che ho aggirato per potermi accucciare direttamente sulle rocce e poter guardare senza vincoli davanti a me. È stato lì, sulla cima del promontorio, con il vento salmastro che mi soffiava contro, che ho potuto ammirare lo spettacolo delle onde che si infrangevano rombando contro gli scogli, parecchi metri sotto di me.

Sant Elia

Quel luogo, dove giungono solo i suoni del vento e del mare, è uno di quelli in cui mi piace stare in silenzio a riflettere, quando ne sento il bisogno. Posso sedermi contro il volto primigenio della terra, scattare qualche foto e allontanarmi dal ronzio della città, dai suoi fastidiosi rumori di sottofondo.
Ed allora rifletto. Tanto. A lungo. Rifletto sulla direzione in cui sto andando, controllo per vedere se è tutto a posto, mi prendo qualche minuto per analizzare ciò che ho intorno e per bilanciare le variabili della mia vita. Noto che, a differenza dell’ultima volta, c’è una strana nota all’interno della mia sfera di quiete interiore: una sorta di corda pronta a vibrare, ad emettere un suono. Che tipo di suono, ancora non lo so: potrebbe essere una nota musicale che si armonizzi con la mia pace, oppure una dissonanza che la metta in agitazione. Sorrido lievemente, perché la sua presenza non mi è di certo passata inosservata. Anzi, proprio di recente qualcuno mi ha consigliato di farvi attenzione.

Tuttavia, una volta Henry David Thoreau scrisse:

Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.

Sia mai che io un giorno mi guardi alle spalle e mi renda conto di non aver vissuto! Alle volte bisogna rischiare tutto per arrivare da qualche parte, ma alla fine più che dare il meglio di noi stessi, non possiamo fare. In questo momento, sento di avere abbastanza energie in corpo per dare quel meglio. Ho una buona motivazione per farlo, ho intorno chi lo merita. Il risultato finale è tutto da stabilire, ma se anche dovessi fallire nel raggiungere la mia meta, non si possa mai dire che è accaduto per colpa mia e del mio mancato impegno. Nel bene o nel male, si combatte sino alla fine.

A mano a mano che il tramonto avanza, il cielo diventa rosso. Non però di quel piacevole colore che preannuncia la scomparsa del sole, bensì un rosso arido, di fuoco. Neanche il tempo di riuscire a formulare questo pensiero, che le nuvole si addensano nel cielo ed iniziano a riversare su di me un sottile manto d’acqua. Sento le gocce picchiettarmi contro le spalle e la testa, ma non mi muovo: resto ancora a guardare l’orizzonte, mentre sottili rivoli d’acqua iniziano a scorrermi lungo il busto e una guancia. Il mare sotto di me ruggisce, disinteressato a tutto questo, continuando il suo assalto contro la costa.

Sento di non avere più nulla da fare lì, dunque infracidito mi alzo e mi allontano a passo lento, quasi come se la pioggia non esistesse, verso il sentiero che conduce a valle della scogliera.
Ho una battaglia che mi attende e non vedo l’ora di impugnare le armi.

 
 
Fotografia concessa in cortesia da Fabio Sciacchitano

Echi di primavera

monte-le-reti-sole-1Oggi sono terribilmente irrequieto.
Forse il motivo lo conosco: il sole splende caldissimo, senza che un refolo di vento riesca a infreddolire la giornata. Dalle finestre della biblioteca della facoltà, le fronde degli alberi risplendono di un verde smeraldineo, quasi come se si fossero risvegliate sotto una nuova luce. Le nuvole bianche in cielo formano un circolo sopra la mia testa, racchiudendo l’orizzonte e lasciando un varco azzurro proprio davanti all’astro dorato.

Tra poco dovrò affrontare l’ultimo esame del semestre, ma penso di essere arrivato a stancarmi proprio nel corso della volata finale: dopo più di un mese passato introdottamente sulla materia, la mia testa non ne vuole più e reagisce ai raggi quasi primaverili ribellandosi alla staticità della mia postura in sala studio. Cerco di riprendere in mano le redini della mia mente, ma questa scalpita incontrollabile. Sopraffatto dagli eventi, poso tutto ed esco.
Solo pochi minuti dopo sono seduto sotto quell’amichevole calore, sul bordo di ciò che qui viene chiamata la “piscina” dell’Università. L’acqua gorgoglia e un profilo di alberi e denti di leone incorniciano la mia vista, mentre il riflesso della luce sull’acqua limpida intensifica la canicola mattutina.

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È da troppo tempo, ormai, che la mia quotidianità sembra ristagnare intorno alla propria routine. Casa, università, pc, amici. Sempre le stesse cose, in un ciclo ricorsivo da cui non riesco ad uscire. Esco di casa e non vedo l’ora di tornarci, rientro e mi sento oppresso da queste mura e smanioso di uscire di nuovo. Per andare dove, poi? L’unico luogo dove vorrei veramente andare mi è irraggiungibile al momento. Dunque sto qui, schiena contro il muretto e le scarpe ad un soffio dall’acqua, ad ascoltare i suoni di questa giornata, a ricercarne l’essenza nel vano tentativo di assorbirne un po’.

Apro il Kindle e cerco di distogliermi da tutto quanto: dalla materia, dall’esame tre meno di ventiquattr’ore, dagli impegni, dalle aspettative e dalle preoccupazioni. Tra il sole e le righe del libro, cerco di distogliermi completamente dalla mia routine e di spezzarla, in modo stupido e insensato: ciò di cui ho bisogno è rompere questo anello, non importa come. L’importante è darmi una via di fuga da questo mulinello composto da giorni sempre uguali: una volta giunto a questo, tutto il resto seguirà con assoluta certezza.

Sono rimasto un po’ indietro, mentre tutti gli altri sono andati avanti. Dovrei posare i libri, smettere di scrivere, disimpegnarmi da tutto ciò che è importante per far spazio, per un poco, a ciò che non lo è.: solo così posso sperare di riuscire a ritrovare un po’ della vitalità perduta che al momento riesco solo a vedere proiettata nella natura intorno a me.