Category: Spirito


C’è bellezza

Certe volte mi sembra che manchi qualcosa.
Non saprei descrivere cosa, nè a parole nè per immagini: è come fosse un insieme di frammenti che trovano il modo di incastrarsi, un miscuglio di emozioni che ogni tanto vibrano con la stessa frequenza di risonanza della mia anima, ed ecco allora che nel pieno di un’azione qualsiasi mi ritrovo ad alzare la testa, guardarmi intorno e… assaporare il momento, con una consapevolezza acutizzata dell’hic et nunc, il qui e ora. Non saprei dare un nome a questa cosa, nè cercare di spiegarla meglio: è come un flusso di vita invisibile, celato all’occhio e che fluisce tra le intercapedini della vita a colmare i margini tra una struttura e l’altra.
Mi manca qualcosa, almeno credo, e penso sia qualcosa di così banale da essere sotto gli occhi di tutti, un po’ come la respirazione involontaria: è qualcosa di così basilare e fondamentalmente indispensabile che la sua presenza passa persino inosservata. Non capisco cos’è, ma ogni tanto questa frase rintocca tra i miei pensieri mentre guardo la vita dispiegarsi intorno a me e le altre persone che vivono le proprie vite ai due margini della strada.
Mi sta sfuggendo qualcosa, ma non capisco cosa e lo cerco con lo sguardo. Lo cerco nel riverbero del crepuscolo sui tetti delle case secolari, lo cerco nel modo in cui le fronde ondeggiano al vento oceanico, lo cerco nelle espressioni della gente, lo cerco tra le stelle particolarmente visibili di questa notte di primavera, mentre riempio la strada della mia presenza silente. C’è una malinconia di sottofondo che mi irrigidisce le spalle e che continua a farmi domandare cosa stia dimenticando in tutto quel che ho fatto nel corso dell’ultimo anno, quello del cambiamento radicale che, in qualche maniera, mi ha condotto dalla parte opposta dell’Europa a guardare un cielo stellato che per qualche motivo non viene nascosto dalle luci della città.
Ma neanche oggi, nè il crepuscolo, nè il vento, nè gli astri mi danno una risposta. Forse non è lì che devo cercare, ma altrove.

La risposta mi giunge pochi giorni dopo, tanto effimera quanto la domanda.
Vago, a piedi, per una delle regioni più remote del Regno Unito. Il mio percorso mi conduce su e giù lungo una linea di colline costiere, il cui costone più esterno si protende verso il mare, tuffandosi direttamente nell’acqua zaffiro. Tra le faglie formate dalle scogliere, di tanto in tanto si nasconde una spiaggia antica quanto la terra stessa, mentre dei cartelli mi informano sulla presenza di alcuni relitti che giaccono, sepolti e indisturbati, sul fondo di quelle acque. I miei stivali scalpicciano mentre smuovono la ghiaia del sentiero, diretti verso le rovine di un’antico santuario che si erge sulla collina più alta e che più si protende sul mare: da lassù, tutto il mondo sembra a portata di mano. Mentre discendo e ritorno a seguire la linea costiera, una mandria di cavalli selvatici passa al galoppo a non molta distanza da me, correndo come il vento, le chiome svolazzanti e gli zoccoli rombanti mentre assaporano la libertà di quelle alture.

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Poi, ad un tratto, la spiaggia.
Non mi aspettavo nulla di simile: nel momento in cui gli scogli hanno iniziato a diradarsi, hanno lasciato il posto ad una spiaggia enorme. Vivendo in Sicilia, sono sempre stato abituato a spiagge lunghe e strette, mentre quella che mi si profilava davanti era sia lunga che larga: un centinaio di metri di sabbia compatta e pianeggiante si estendeva dalle radici del promontorio fino a raggiungere senza premura l’acqua ghiacciata che si stendeva all’orizzonte. Ho camminato sulla spiaggia con gli stivali legati allo zaino, alla sinistra il mare e alla destra il promontorio roccioso che nascondeva tutto il resto del mondo: tutto il mio universo si limitava a quella striscia di terra. Ricordo con vivida lucidità la felicità che ho provato nel percorrere quel posto, lasciare le mie impronte, bagnarmi nelle occasionali pozze d’acqua fredde come l’inverno.

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Ad un certo punto, mi sono distaccato dai miei compagni di viaggio e mi sono avvicinato al bagnasciuga. In quel momento c’eravamo solo io, il mare e una sensazione di libertà totale che si spandeva in qualunque direzione: ero in un punto casuale del mondo, vicino a nessun posto che chiamerei casa e avevo intorno a me lo spazio per fare qualunque cosa volessi. La sabbia era morbida, l’acqua fredda, il cielo sereno ma sul punto di scurirsi e spirava un vento leggero. Mi sono ritrovato a ridere da solo e poi a correre lungo il bagnasciuga. In quel momento sento di aver trovato una risposta effimera ad una domanda altrettanto sfuggente. Quel qualcosa che manca. Quella scintilla di energia che era nascosta chissà dove, invisibile dal punto in cui sono di solito. Non riuscirei a mettertelo in parole migliori di queste, ma se proprio dovessi sforzarmi di farlo penso che vi sia una felicità di fondo, nella creazione: molto in profondità, oltre strati e strati di sedimenti e altre cose. A volte è così nascosta che sembra non ci sia ma quel giorno, mentre ero totalmente libero, per un attimo l’ho sentita: proveniva dalla sabbia, dal mare, dal cielo e dalla spiaggia, contemporaneamente. Era come se avessi sofferto per tutto l’inverno a causa del mutismo della terra e quel dì ne avessi finalmente sentito nuovamente la voce, il canto. E so che c’è ancora, so che c’è qui in questa terra lontana da casa e che amo alla disperazione e se è qui vuol dire che è ovunque, anche sotto il cemento e i sedimenti delle giornate. Nemmeno il temporale scatenatosi dopo e che ci ha costretto a trovare rifugio tra le rocce è riuscito a cancellare il mio buonumore.

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Quel giorno ho imparato una lezione che ho trovato fondamentale per tutto il tempo a seguire: il mondo è pieno di bellezza. Sembrerà forse banale, ma prenderne piena consapevolezza è stato per me un passo importante che ha mutato la mia percezione di ciò che avevo quotidianamente intorno. Da allora ne ho visto molta altra: ho camminato su colline secolari, ho giocato con gli agnelli nella stagione delle nascite, ho scalato i tor per ammirare la vista dalla cima, ho percorso boschi e attraversato fiumi, ho rinvenuto ossa animali tra le pieghe della terra, mi sono seduto a meditare in circoli di pietra ancestrali lontani chilometri e chilometri da qualsiasi traccia di civiltà, ho osservato i cavalli correre e dormire, mi sono perso nelle nebbie più fitte.

Da quel giorno sulla spiaggia, quel qualcosa non manca più.
È, ovunque, Awen (/|\)

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Mi trovo in terra straniera, in luoghi inesplorati: una landa di pianure decorata da una cinta di monti innevati. È ancora presto quando ruoto la maniglia e mi dirigo fuori, inspirando una ringiovanente boccata d’aria, fredda e cristallina come acqua di sorgente in un ghiacciaio. Qua fuori, di domenica mattina, si ode unicamente il silenzio interrotto, ogni tanto, dal verso di un uccello nero che insegue la sua compagna. Il luogo dove alloggio è un vecchio monastero riconvertito in appartamenti monolocali: le pareti del chiostro interno sono state pitturate di bianco e una fila di tigli sono stati piantati a formare un giardino rettangolare. Nel pieno dell’autunno, questi alberi danno prova del loro soprannome, “winter orange”, sfoggiando una chioma vigorosamente arancione che contrasta nettamente con i tronchi neri che salgono verso il cielo, affondando le radici nel terreno fangoso. Ad una delle estremità del giardino campeggia la scultura sacra di una Madonna, bianca anch’essa, candida e in pace con ciò che ha intorno.

Avanzo nel silenzio, mentre il luogo rintocca campane d’armonia al centro del mio essere, e mi sposto in direzione degli alberi, prendendo posto tra di essi. Mi ritrovo circondato da una volta di foglie del colore dei limoni che lentamente, sotto l’influsso della stagione, si staccano dalle fronde e planano in aria, danzando intorno a me e alla statua che ho di fronte, prima di depositarsi a terra in un letto che ricopre interamente la pavimentazione del chiostro. Ancora una boccata d’aria, il freddo del nord che mi penetra nei polmoni, l’aria pura di quel santuario che mi purifica il corpo e l’anima. Per un attimo, nella quiete del primo mattino, chiudo gli occhi e divento quella statua, quegli alberi, quelle foglie e quegli uccelli. Per un attimo, inspirando quell’atmosfera raggelata, dimentico le ansie e le delusioni che mi hanno accompagnato nei giorni precedenti, così come lo stress del lavoro. Per un attimo riesco a ritrovare il mio centro, grazie ad un improbabile luogo nascosto tra le case cenerine e tutte simili che definiscono questa città squadrata e monocromatica. Riapro gli occhi e osservo quegli alberi che si ergono rigidi e flemmatici contro il cielo coperto da uno strato di placidi, grigi nembi che ovattano la luce del sole. Ho scoperto che c’è del piacere anche nella natura fredda, coperta nell’aria frizzante e pungente del settentrione, così differente dalla vegetazione con la quale sono vissuto in Sicilia: selvaggia e senza confini, un’esplosione colorata del più primigenio volto della terra. Colori di cui già sento la mancanza, ma che non troverebbero posto in questo luogo, così diverso ma a sua volta così esatto.

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Alzo il bavero del cappotto, rifugio le mani nel tepore delle tasche e dopo quei brevi minuti di meditazione ad occhi aperti ritorno verso i miei impegni quotidiani, il tacco delle mie scarpe che rintocca sulla pietra e riecheggia nella bianca serenità del mio alloggio.

Stanotte avevo semplicemente voglia di vedere il mare.

Sono passate quattro ore dalla mezzanotte e la città è ormai avvolta nel sonno: il silenzio permea le strade e il debole ronzio dei lampioni è l’unico suono che tenta, debolmente, di attraversare l’aria. Anche il vento è muto: le fronde degli alberi giacciono immobili, anch’esse immerse in un sonno profondo, e non si curano della mia auto che, unica e solitaria, percorre le strade alla blanda velocità di una manciata di chilometri orari. Come potrei andar più veloce, d’altronde? Mi trovo alla presenza del mondo addormentato, pallido sotto le stelle e vulnerabile come non mai. Lo guardo dormire, trattenendo il fiato come per paura di svegliarlo mentre guardo il suo petto alzarsi e abbassarsi seguendo il respiro del pianeta.
È a quel punto che decido che non voglio tornare a casa.
Giro il volante e imbocco un viale alberato, scivolo silenziosamente tra le strade e, infine, mi rendo conto che ho una voglia assurda di vedere il mare. Si, alle quattro del mattino di un venerdì in pieno inverno.

Ho sempre avuto un sommo rispetto verso coloro i quali riescono a condurre una vita all’insegna della logica e trovo che essa sia una facoltà da cui non si può prescindere nella vita, ma trovo che la totale mancanza di irrazionalità privi l’uomo di una parte della sua natura, quello strato emotivo da cui sembra essere più facile trarre la felicità: se si smette per un istante di guardare al mondo con gli occhi del matematico, vedendolo come un’insieme ben definito di leggi e di cause ed effetti, e si inizia invece a trovare grazia nei dettagli irrilevanti, come si può non rimanere meravigliati di qualcosa che abbiamo ogni giorno sotto agli occhi senza accorgercene, ovvero la pura essenza delle cose?

Insomma, avvolto dai pensieri attraverso tutta la città e vado oltre, fino alla spiaggia. Apro i finestrini per far entrare l’aria salubre e ghiacciata delle ore che precedono l’alba e già mi godo il suo preludio fatto di sciabordii d’onde e versi di gabbiani insonni. Trovo uno spiazzo e mi fermo, quindi scendo dall’auto e mi arrampico sulla balaustra in ferro, sedendomi in direzione del grande blu, stringendomi nella giacca.

Il mare, stanotte, è meraviglioso.

AspranotteIl vento freddo carezza la superficie d’acqua, sollevandola giusto il necessario perché questa, al contatto con la riva, si scomponga in schiuma bianca che tenta di protendersi verso la terraferma prima di venire trascinata indietro con decisione. Una volta, due volte, tre volte. Sembra quasi che l’acqua stia vivendo una vita all’insegna della fuga, come se passasse la sua intera esistenza a cercare di raggiungere la spiaggia e che, infine, vi si aggrappasse con tutte le sue forze solo per venire tirata indietro per le caviglie dal resto dell’oceano.
Alzo gli occhi: l’orizzonte si confonde nel blu della notte, mescolando mare e cielo, e non so più dire quale delle due sto guardando in un determinato momento. Volgo il capo a destra e a manca e scorgo le luci del lungomare della città, completamente deserto. Poco più in basso, sulla rena, alcuni pescatori avanzano verso le logore barche di legno, preparandosi a prendere il largo. In tutto il resto del mondo, solo il silenzio. L’aria salmastra mi investe e mi riempie le narici, donandomi un rassicurante senso di conforto. Eccolo, il respiro della Terra. È questo, il lento inspirare ed espirare che proviene direttamente dal cuore del mondo.

Nel frattempo, penso. Arriva quel momento in cui tutto cambia e lo capisci non perché muta l’evidenza, bensì poiché è l’inevidenza quella palesemente alterata. Non reagisci più allo stesso modo, non subisci i colpi come facevi una volta, e ti domandi come si siano allineati gli ingranaggi della vita, l’orologeria della propria esistenza. Ma è proprio per questo che, inconsciamente, forse mi sono spinto sino al limite dell’oceano: per ricordarmi quanto piccoli siano i tic tac di quelle lancette di fronte all’immensità dell’universo.

Non so dire quanto tempo sono rimasto seduto su quella ringhiera di ferro rovinata dal sale. Forse mezz’ora, forse di più. Il profumo e il suono delle onde mi rilassano e mi placano la mente accelerata, sincronizzando i miei pensieri con i loro ritmi placidi e tranquilli. Non c’è alcun domani, nè alcun passato: vi è solo il momento presente e vi assicuro che me lo sto godendo in pieno, in un modo talmente irrazionale e illogico da riempirmi lo spirito. È proprio questo il guaio della logica: ad ascoltare lei, scendere in spiaggia alle quattro del mattino, in pieno inverno, nel bel mezzo della settimana, è stato uno dei gesti più stupidi, irresponsabili e irragionevoli che potessi fare. Se l’avessi ascoltata, sarei tornato a casa e mi sarei andato a coricare, terminando la giornata e risvegliandomi il mattino dopo. Invece non l’ho fatto e ho creato qualcosa di eterno: un ricordo. Non fraintendetemi: sono un estimatore della logica, d’altronde sono un ingegnere informatico e questa è una professione che si basa interamente sugli schemi mentali. Ogni tanto, però, credo sia un bene concederci di fuggirne per andare ad esplorare le infinità dell’animo umano che, credetemi, di sensato hanno ben poco.

Noi scrittori siamo completamente fuori di testa.
Ma al mare, stanotte, non importa.

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Awen

Awen

Mi ritrovo in questo luogo senza nemmeno sapere come.
Un attimo prima stavo camminando per il campus, diretto alla biblioteca, e un attimo dopo eccomi qui. Sono in piedi di fronte agli alberi, le mani nelle tasche per proteggerle dal freddo, lo scaldacollo tirato sino al naso. Ma non va bene: devo respirare quest’aria, perché ha qualcosa da dirmi. Sto facendo tardi, ma non riesco a curarmene: se mi trovo dove sono, un motivo ci sarà.
Nonostante siano appena le tre del pomeriggio, il sole è già abbastanza basso all’orizzonte e scaglia lance di luce che filtrano tra gli alberi, lasciando me in ombra ma illuminando tutto ciò che ho davanti: il prato, i cespugli, gli alberi, il terriccio umido del suolo, l’impronta di un inverno ormai alle porte. I rumori della strada giungono ovattati, garantendomi un certo distacco: quel che conta sono queste piante, questa terra, questo pezzo di Natura che a lungo ho ingiustamente ignorato, nonostante tutto ciò che ho trascorso qui in passato.

IMG-20120616-00749Inspiro e mi chiedo dov’è che sono. Indipendentemente dal parco, non so dirlo. Nè so cosa sto facendo o dove sono diretto. Mi massaggio la fronte, chiudendo per un attimo gli occhi, e per un breve momento tutto il resto va via e rimaniamo solo io e il mondo, spogliato dalla sua civiltà e dai suoi costrutti sociali: un tipo di contatto con la Terra che non provo di certo per la prima volta in vita mia, ma di cui sentivo la mancanza.
Il mio Equilibrio è vacillante, non c’è alcun dubbio: è da circa un anno che non riesco ad essere sereno al cento per cento. Non so come andrà a finire, tuttavia, ma capisco ancora una volta che se sono seduto di fronte alla Natura un motivo c’è, per quanto possa apparire strano al lettore. Ma gli alberi non mi parlano, bensì mi ascoltano: forse vogliono che sia io a parlare.

E allora parlo, nelle profondità del mio cuore.

Parlo e la voce esce spezzata, perché come in un contatto empatico trasmetto emozioni e non parole. Parlo ed esce fuori tutto, tutto quello che non ho mai avuto il coraggio di dire, nè di scrivere, nè di pensare. Parlo e devo sembrare davvero uno svitato per i pochi che mi passano abbastanza vicini da poter udire i miei sussurri attenuati dallo scaldacollo di fronte alle labbra.
Parlo ma non ottengo risposte, perché non pongo alcuna domanda. Mentre butto tutto fuori, mi sento come se quel pezzo di mondo mi abbracciasse, come se i rami si protendessero sulle mie spalle come mani di conforto, come se la Vita che ho davanti comprendesse e dividesse con me il mio carico.

Mezz’ora dopo, ho finito. Prendo ancora qualche istante per godere delle ultime ore di luce della giornata, quindi muovo i miei passi nuovamente verso il sentiero per tornare ai miei impegni quotidiani. In quel momento, mentre cammino lungo il viale costeggiato dagli alberi che si intrecciano come una volta sopra di me, vengo pervaso dalla netta sensazione di stare uscendo da un tempio.

POST SCRIPTUM

Chi volesse sapere che cos’è l’Awen, clicchi sulla prima immagine.

La morale della notte

L’uomo moderno è cresciuto con la concezione del buio come un’entità malvagia.
Se dovessi elencare immagini di ombra, di oscurità, ciò che causerei nei miei lettori sarebbero sensazioni negative: da tutta la vita percepiamo le tenebre come qualcosa di cattivo, di pericoloso. Certo, questa visione è un’ottima metafora della vita e ha fatto da sfondo a moltissimi racconti, sopratutto fantasy, definendo in modo chiaro e netto il bene e il male, tracciando una linea separatoria tra quello che è giusto e quello che è sbagliato. Anche nel mio stesso (fervido) immaginario, evocare una figura come un “guerriero delle tenebre” può solo portarmi a pensare ad un cavaliere corazzato di nero che difende a spada tratta principi non del tutto limpidi.

Eppure non è sempre stato così.

Prima che la nostra mentalità passasse attraverso la fucina dei secoli, addirittura dei millenni, questa distinzione non avveniva. Adesso, nel ventunesimo secolo, abbiamo un disperato bisogno di qualcosa che ci permetta di identificare chiaramente il bene dal male perché in realtà questi due sono i concetti più difficili da scindere di tutto il nostro comprendonio, poiché non esistono in modo assoluto. Viviamo in un mondo grigio dove nulla è netto, ma ogni cosa si intreccia con l’altra a formare la grande catena della vita.

Tuttavia, molto tempo fa, questa distinzione non era necessaria.
Chi mi conosce bene saprà già di chi sto sicuramente parlando: del popolo celtico, ovviamente, seppur li prenda solo come esempio di un mondo che aveva una visione dell’esistenza estremamente diversa da quella che abbiamo noi oggigiorno.
Per i celti la luce non era sinonimo di bene e il buio non lo era di male: tutto faceva parte di uno stesso Equilibrio che regolava i cicli naturali e che permetteva alla Terra di continuare a vivere e a fiorire sotto i loro piedi. Notte e giorno, vita e morte, estate e inverno: tutto faceva parte della stessa inscindibile struttura e la loro unione garantiva la persecuzione dell’esistenza, della vita per come la si conosceva. E’ per questo che non ci si deve stupire del perché essi innalzavano preghiere alle divinità delle tenebre così come a quelle della luce: non esistevano dei buoni o dei cattivi, solo entità che rappresentavano diversi aspetti, giusti, delle cose. L’universo andava ringraziato per la creazione di entrambi gli aspetti della vita.

Dopo questa (non molto) breve introduzione, giungo al punto focale della questione: la festa che si avvicina proprio in questo periodo dell’anno, ovvero Halloween, il proseguio deformato e distorto dell’antica festa celtica di Samhain, il capodanno celtico, il momento in cui aveva inizio l’inverno e la Parte Oscura dell’anno, quella in cui la notte durava più del giorno.

Halloween è tutta una strumentalizzazione, una perversione del suo originale, sacrissimo significato, ben noto a chi conosce il suo vero nome. C’è chi ha avuto in mente di renderla una festività “cattiva” ed è riuscito a far breccia nella collettività: ora il 31 Ottobre è festeggiato (perché si, incredibilmente la gente lo festeggia ancora, nonostante quello che crede voglia significare) come una festa dell’ombra e della morte intesi nel loro senso più negativo, senza domandarsi perché questa sia una tradizione portata avanti da millenni, da ben prima che la parola “cristianesimo” fosse stata inventata. Le cose assumono il significato che noi vogliamo attribuirgli: finché si continuerà a interpretare questa data con il senso sbagliato che tentano di rifilarci, ogni anno celebreremo il concetto della Morte privato del concetto della Vita, quando invece è quel buio da cui tutto ha inizio, il silenzio da cui sorgerà la prima vibrazione, quel vuoto iniziale che deve essere, perchè possa compiersi la nascita.
E’ un concetto molto valido sia nella tradizione druidica che in quella alchemica: dove nella prima ombra e morte sono complementari alla luce e alla vita e conferiscono esse un senso, per la seconda sono i preludi della rinascita: la nigredo, la mortificazione di ciò che è impuro, plumbeo, verso la rinascita nell’oro. Se da una parte è una rappresentazione di continuità, dall’altra parte indica l’inizio di un percorso ma entrambi rappresentano un’elevazione nel cammino spirituale.

Halloween non è una festa cattiva. Semplicemente, c’è qualcuno che vuole farci credere che così sia. Io vorrei che la notte di Samhain venga sempre ricordata per il significato originale che aveva per il popolo celtico: il giorno del nuovo inizio, il giorno della memoria, il giorno dell’oscurità, l’unica da cui è possibile ammirare la bellezza delle stelle nel cielo.

Camaleonti

La struttura del mondo è dinamica ed in continua evoluzione: questa è un’asserzione che ho sentito ripetere spesso, veramente tante volte, in passato. D’altro canto, sembra avere valide fondamenta.

Sta passando un anno strano e io mi rendo conto di rimodellare la mia struttura, ridisegnandomi sotto il profilo di una forma che mi permetta di adattarmi meglio a ciò che mi circonda. Forse è questo lo sbaglio che compiamo, tutti quanti: invece di cercare di migliorare ciò che abbiamo intorno, siamo dotati di un sorprendente e fantastico spirito di adattamento che ci permette di resistere anche alle condizioni peggiori, al costo di divenire peggiori noi stessi. Se solo fossimo in grado di riuscire a mantenere la nostra struttura, forse riusciremmo a vivere in modo più coerente, invece di trascorrere le nostre esistenze mutando da una forma all’altra, in una cascata di frattali senza fine e senza senso.

La camaleontizzazione con l’ambiente circostante è quello che, con il passare degli anni, ci fa divenire sempre più simili al cemento e al ferro di cui amiamo tanto circondarci. Ogni giorno sembriamo allontanarci da quel disegno originario che ci vedeva un tutt’uno con ogni cosa e andiamo annichilendoci in uno spazio ristretto, tagliando fuori le emozioni “inadatte” al mondo in cui ci chiudiamo. Vediamo il cielo e ci sembra immenso, per cui ci volgiamo dall’altra parte e quando torniamo a guardarlo la luce del sole è troppo forte per i nostri occhi troppo abituati alle tenebre e così finiamo per scendere sempre più in profondità. Pochi di noi sono quelli che sono in grado di mettere in moto il processo inverso: ovvero quello di anelare ciò che si trova fuori dal nostro comprendonio. Per costoro, tuttavia, la vita non è facile, in quanto sono le creature con struttura simile quelle che simpatizzano tra di loro. Per tutti gli altri, vi sono solo due strade: l’indifferenza o il cambiamento.

La struttura del mondo è dinamica ed in continua evoluzione. Ed io, in questo momento, stento a riconoscere la forma che ho assunto.

Le campane

Hai mai sentito le campane suonare? Non quelle tristi dai rintocchi spenti e senza melodia, ma quelle che impazziscono in una musica di suoni ed allegria. Quelle che fanno ridere i bambini e li portano a danzare in un prato verde, girando, saltando come per volare ad ogni rintocco verso il cielo…forse tu le hai sentite o perlomeno immaginate.

C’è chi preferisce sedersi sul prato e aspettare il loro rintocco, c’è invece chi percorre la lunga scalinata sino alla cima del campanile per suonare le dame di metallo. Non è un’aspettativa allettante, lo so: dal prato si ha una comoda vista del cielo e su tutto ciò che si ha intorno, mente quella salita sembra così faticosa. Ti assicuro, però, che lo sforzo compiuto viene interamente ripagato dalla vista: come con il vento, più si sale in alto e più si sente la voce di Dio. Ma la vera felicità è quello strattone alla corda che fa rintoccare la campana, che le fa spandere la sua nota intorno a sè e fa saltare i bambini e sorridere i grandi.

Ma sai che c’è? A volte, quando sei troppo impegnato nel tuo viaggio attraverso la città, inizi a confonderti in essa: il martellare del fabbro, il nitrire dei cavalli, il chiocciare delle comari diviene un’unica, grande alchimia di suoni che riempie le giornate vissute di fretta. Ma ciò che è peggio è che ci si dimentica del campanile e della vista che c’è lassù, del silenzio dell’aria, della refratterietà della vita quando si è ormai in balia dei venti.

Credo che ognuno di noi debba sempre ricordarsi del campanile. È un luogo sicuro dove non dimenticare mai chi si è.

Chimera della luce

Manca qualcosa.

Forse è l’odore delle estati trascorse, intrise di un’aroma che sa di vecchio, di passato. Immagini sbiadite come vecchie fotografie color seppia, Soli che tramontano, raggi di luce che si diffraggono sulle creste delle montagne e riflettono sull’orlo dell’orizzonte. Forse che manca il respiro del mondo che nell’unico tempo smuove tutte le fronde, forse l’eco smeraldineo della forza della Terra che riecheggi e rimbombi sotto una coltre di gelo, lasciando al suo passaggio solo una cappa di silenzio.
Il mio spirito vaga come un trovatore alla ricerca del Sole. Ho bisogno del calore, del fuoco delle stagioni di luce, del riflesso sul tronco di un albero, della vibrazione del campo estraneo alla civiltà. Ho bisogno di sentir parlare il vento, di graffiarmi con la roccia, di dividere lo spazio con l’infinito. Cerco la vita nel verde che si mescola con l’azzurro, che a sua volta diverge negli sfocati contorni dell’infinito, sopra sotto e tutt’intorno, e mi ritrovo così a mescere quest’alchimia di colori e sensazioni che salgono al cielo come le lingue del fuoco di Beltane.
Sento il cuore di Gaea, odo la voce dell’Awen, rinasco come il seme che attende la primavera nella sua armatura di ghiaccio, ammiro l’alba, prego nel tramonto e insieme alle ombre del crepuscolo mi allungo e mi mescolo nel Tutto, a fare il miracolo della cosa Una.

«[…] E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Il Sole è suo padre, la Luna è sua madre, il Vento l’ha portata nel suo grembo, la Terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il fine di tutto il mondo è qui. […]»

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una