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Partenze

2015-09-29 20.49.47Alla fine, tutto si riduce a questo. Una vita e un mondo ristretti ad un attimo e a un quadrato di pochi metri di spazio. In piedi sulla banchina, quando il sole è ormai calato all’orizzonte e il vento sempre più freddo dell’autunno impellente inizia a soffiare, mi ritrovo a guardare la nave che salpa e che, solcando le acque, si allontana dal porto. È questo il momento cruciale, la singolarità dell’esistenza: una nave che parte. La vera differenza è nel dove ci si trova, quando i motori iniziano a girare: se a bordo o a terra. Stavolta io rimango sul molo e osservo un’intera parte della mia vita che si allontana verso un futuro più splendente.

Ci sono quelle cose, nel corso degli anni, che arriviamo a bollare con l’etichettà “succederà”. Certe cose che sappiamo bene che dovranno accadere, prima o poi, ma con cui decidiamo di non fare i conti, vuoi per paura, vuoi perché tendiamo a vivere la vita troppo alla giornata: impegni a lungo termine, scadenze, punti di confine dell’esistenza. A volte sono i nostri, a volte quelli degli altri, ma in ogni caso da lì in poi non si torna indietro. È un bene che sia così: questo assicura la nostra personalissima evoluzione, ma ciò non vuol dire che non possa lasciare addosso il sapore della malinconia e ricordi in color seppia che riempiono la totalità della propria vita.

La fatalità dell’esistenza non è altro che una scintilla nella notte: un rapido fulgore e, dopo, la cenere. Ma chi ammira il lampo non dimentica mai la luce. E tu, più di ognuno, eri e sei la luce.
Ciao, Peppe.

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142310473_d2348bcec9_oC’è qualcosa di diverso nel mondo contenuto in questo finestrino opaco, su un treno fatiscente che percorre la Sicilia.
Non è il paesaggio esterno, perché quello è quasi immutato da quando ne ho memoria. Non è neanche il susseguirsi della ruota delle stagioni: fuori cala la notte, il buio permea le strade e l’illuminazione artificiale giallastra si riflette sull’asfalto e rischiara debolmente e in modo freddo le auto che passano di corsa, senza tempo, senza spazio.

Sono io, è il mio riflesso ad essere diverso.

Guardo una figura in piedi, in fila con le altre persone che attendono che il treno si fermi in stazione e ci faccia scendere. Guardo una figura che si sovrappone alle luci notturne della città, mescolandosi con esse, e penso: «Quello non sono io».
Allora continuo a guardarla e cerco di capire cos’è che mi sta trasmettendo questa strana sensazione, improvvisamente e senza alcun dubbio. Forse è la postura: è per caso cambiata nel corso degli ultimi mesi? Oppure è la barba, può darsi che sia vero che rende più vecchi come tutti dicono. Magari ancora è la camicia che mi dona un’aspetto più serio, più formale, a cui ancora non mi sono abituato. Ancora, potrebbero essere tutte queste cose messe insieme. Immagino che la nostra percezione di noi stessi sia un sistema non lineare in cui il totale è maggiore della somma delle parti.

So solo che ho sempre odiato il fatto di sembrare più piccolo di quanto in realtà io non sia: la gente continua a darmi dai diciotto ai vent’anni e questo influenza il peso che attribuiscono alle mie parole. Ma presumo che, a questo punto, io dovrei aver capito il mio errore: il modo in cui ci presentiamo al mondo è solo una proiezione pesata del nostro essere interiore. Quello che non avevo ancora capito è che dovevo attuare un drastico cambiamento interiore e che quello esteriore sarebbe giunto di conseguenza. Tuttavia, non si realizzano cambiamenti del genere senza un buon motivo ed è proprio in questo periodo che io sento il bisogno di cambiare, perché non ho più voglia di qualcosa di vecchio e consolidato che mi porto dentro. Perché alle volte, come questa, vorrei davvero essere una persona peggiore di quella che sono, perché la vita è più facile se sei uno stronzo patentato. Ma il mio problema è proprio questo: anche se ci provo, non riesco a smuovermi dalla mia struttura e ricado sempre in ciò che sono: un povero idiota disposto a sacrificare sè stesso per ciò che gli sta a cuore, in un mondo dove i sacrifici passano inosservati dietro il caos delle auto, dei treni, dei bus, degli impegni e degli orari, dei social network, dei “mi piace” e delle corse sfrenate.

Improvvisamente, ho capito!

Sono gli occhi.
Già: sono quelli ad essere diversi. Mi stanno guardando in un modo… strano. Nuovo. Come se lo sguardo riflesso non fosse il mio. Ho l’insolita sensazione che colui il quale risponde al mio contatto visivo sia una mia versione del futuro. Una versione che non capisco se mi piaccia o meno: quegli occhi sembrano più saggi, più vissuti, ma hanno un peso che sembra gravare su di eyeloro dall’interno. Quegli occhi mi parlano di altro: di un tipo di dolore che non avevo mai conosciuto e che sono stato costretto a sperimentare. Di una sfaccettatura della vita di cui non conoscevo proprio niente e a cui mi sono dovuto abituare in un tempo relativamente stretto. Di processi mentali, a volte piacevoli ed altre volte meno, a cui non mi ero mai sottoposto, a pensieri contro cui non avevo mai dovuto fare i conti, con sensazioni e percezioni che vanno da quello di un caldo focolare che riscalda il cuore a quello di una vipera che serra il petto.

Però riuscite a pensate a quale paradosso sia l’occhio che guarda sè stesso? Non dovrebbe essere considerato qualcosa di innaturale?

Nel frattempo il treno si ferma e io dò un’ultima occhiata a quel Samuele che mi osserva, stanco, dal finestrino. Mi muovo e, insieme a me, scompare anche lui. Metto piede nella città ammantata di quella luce artificiale e respiro a fondo, massaggiandomi la radice del naso.

Ho bisogno di silenzio.