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Ormai che ci siamo

È una notte d’estate, ma di questo poco importa: il vento corre tra i lampioni e nelle strade, scompigliandomi i capelli mentre osservo la quiete tipica delle ore più piccole. In un modo o nell’altro, è sempre colpa della notte, in qualunque stagione ci si trovi: è quasi come se il cervello si riattivasse solo dopo il calar del sole, quando «tace il rumore della folla e termina il linciaggio delle ore».

Sono quasi quattro mesi che non metto mano a questo blog. Sto avendo la conferma di un’idea che avevo già maturato in passato: per quanto mi riguarda, le emozioni negative sono catalizzatori più efficaci per l’Arte di quanto non lo siano quelle positive. Sta di fatto che negli ultimi tempi sono stato davvero bene con me stesso e ho portato avanti il mio processo di guarigione da tutto il male che avevo assorbito negli ultimi due anni, dunque non ho sentito la necessità di scrivere.

Mi sto rendendo conto che più si va avanti e più spesso mi imbatto in quei momenti in cui si posa la penna e ci si allontana dal foglio, per controllare che tutto vada bene, per valutare la distanza dalla partenza e per stimare quella dalla destinazione. Questa è una di quelle notti in cui, invece di riuscire a dormire, sto facendo i conti con il mio viaggio. Mi sento oberato di lavoro e di responsabilità e per nulla vicino alla meta. Se mi guardo intorno, non riesco a vedere nè l’inizio nè la fine, ma solo un vasto pianoro dove si stendono le cause e gli effetti di ciò che ho e di ciò che sono in questo esatto momento, oltre a tutte le vie che posso percorrere nell’immediato futuro. Forse per la prima volta in vita mia, mi sento veramente stanco, la stanchezza del tipo che ti si annida nel profondo e che ti degrada lentamente, in modo graduale ma invisibile. Lo noto dal modo in cui mi muovo, dalla fluidità dei miei pensieri, dalle mie reazioni agli eventi, dal fatto che mi ritrovo spesso con una mano poggiata sulla fronte, intento a ragionare, calcolare, fare spazio, organizzare, pianificare, risolvere problemi. Il tempo, è sempre quello il problema! Forse, per la prima volta in vita mia, sento di aver bisogno di distaccarmi da tutto questo per poter prendere un respiro profondo, di inspirare aria non inquinata dalla mia quotidianità.

C’è una verità che, tuttavia, mi viene rammentata. Abbiamo fatto tanta fatica per arrivare a questo punto: ormai che ci siamo, tanto vale arrivare in cima. Sento le energie cedere, ma sotto la corazza scalfita dai colpi dei sassi trasportati dalla corrente con cui mi scontro mentre cerco di risalire il fiume, c’è ancora un cuore che batte con la stessa, rinnovata, forza. Perché quella cima, che per molti può essere solo una sporgenza di roccia, per me significa tutto e non riuscire mai a raggiungerla mi terrorizza più di quanto non lo faccia nient’altro al mondo. Inoltre, mi dicono che la vista sia magnifica.

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142310473_d2348bcec9_oC’è qualcosa di diverso nel mondo contenuto in questo finestrino opaco, su un treno fatiscente che percorre la Sicilia.
Non è il paesaggio esterno, perché quello è quasi immutato da quando ne ho memoria. Non è neanche il susseguirsi della ruota delle stagioni: fuori cala la notte, il buio permea le strade e l’illuminazione artificiale giallastra si riflette sull’asfalto e rischiara debolmente e in modo freddo le auto che passano di corsa, senza tempo, senza spazio.

Sono io, è il mio riflesso ad essere diverso.

Guardo una figura in piedi, in fila con le altre persone che attendono che il treno si fermi in stazione e ci faccia scendere. Guardo una figura che si sovrappone alle luci notturne della città, mescolandosi con esse, e penso: «Quello non sono io».
Allora continuo a guardarla e cerco di capire cos’è che mi sta trasmettendo questa strana sensazione, improvvisamente e senza alcun dubbio. Forse è la postura: è per caso cambiata nel corso degli ultimi mesi? Oppure è la barba, può darsi che sia vero che rende più vecchi come tutti dicono. Magari ancora è la camicia che mi dona un’aspetto più serio, più formale, a cui ancora non mi sono abituato. Ancora, potrebbero essere tutte queste cose messe insieme. Immagino che la nostra percezione di noi stessi sia un sistema non lineare in cui il totale è maggiore della somma delle parti.

So solo che ho sempre odiato il fatto di sembrare più piccolo di quanto in realtà io non sia: la gente continua a darmi dai diciotto ai vent’anni e questo influenza il peso che attribuiscono alle mie parole. Ma presumo che, a questo punto, io dovrei aver capito il mio errore: il modo in cui ci presentiamo al mondo è solo una proiezione pesata del nostro essere interiore. Quello che non avevo ancora capito è che dovevo attuare un drastico cambiamento interiore e che quello esteriore sarebbe giunto di conseguenza. Tuttavia, non si realizzano cambiamenti del genere senza un buon motivo ed è proprio in questo periodo che io sento il bisogno di cambiare, perché non ho più voglia di qualcosa di vecchio e consolidato che mi porto dentro. Perché alle volte, come questa, vorrei davvero essere una persona peggiore di quella che sono, perché la vita è più facile se sei uno stronzo patentato. Ma il mio problema è proprio questo: anche se ci provo, non riesco a smuovermi dalla mia struttura e ricado sempre in ciò che sono: un povero idiota disposto a sacrificare sè stesso per ciò che gli sta a cuore, in un mondo dove i sacrifici passano inosservati dietro il caos delle auto, dei treni, dei bus, degli impegni e degli orari, dei social network, dei “mi piace” e delle corse sfrenate.

Improvvisamente, ho capito!

Sono gli occhi.
Già: sono quelli ad essere diversi. Mi stanno guardando in un modo… strano. Nuovo. Come se lo sguardo riflesso non fosse il mio. Ho l’insolita sensazione che colui il quale risponde al mio contatto visivo sia una mia versione del futuro. Una versione che non capisco se mi piaccia o meno: quegli occhi sembrano più saggi, più vissuti, ma hanno un peso che sembra gravare su di eyeloro dall’interno. Quegli occhi mi parlano di altro: di un tipo di dolore che non avevo mai conosciuto e che sono stato costretto a sperimentare. Di una sfaccettatura della vita di cui non conoscevo proprio niente e a cui mi sono dovuto abituare in un tempo relativamente stretto. Di processi mentali, a volte piacevoli ed altre volte meno, a cui non mi ero mai sottoposto, a pensieri contro cui non avevo mai dovuto fare i conti, con sensazioni e percezioni che vanno da quello di un caldo focolare che riscalda il cuore a quello di una vipera che serra il petto.

Però riuscite a pensate a quale paradosso sia l’occhio che guarda sè stesso? Non dovrebbe essere considerato qualcosa di innaturale?

Nel frattempo il treno si ferma e io dò un’ultima occhiata a quel Samuele che mi osserva, stanco, dal finestrino. Mi muovo e, insieme a me, scompare anche lui. Metto piede nella città ammantata di quella luce artificiale e respiro a fondo, massaggiandomi la radice del naso.

Ho bisogno di silenzio.

Vento di scirocco

img_1113Eccomi qui, ancora una volta, di fronte a me stesso.

Sono le due del mattino e, giustamente, non riesco a prendere sonno. È così che decido di salire in terrazza, vestito come sono, e sedermi contro la notte ad ascoltare il silenzio. Sotto di me, la città si stende ai miei piedi: le strade sono deserte e neanche un gatto o un cane ne animano gli anfratti rischiarati dai lampioni messi in fila. I palazzi sono muti e dalle poche finestre ancora illuminate non provengono che suoni attenuati, nel rispetto della notte. Con le gambe penzoloni di fronte a me, sposto la vista in lungo e in largo, ammirando la maestosità di questo incantesimo millenario che, giornalmente, mette a riposo l’arteria pulsante e vibrante di vita che è la città. Stanotte la temperatura è abbastanza alta e soffia un forte vento di scirocco, caldo e arido, che mi godo in pieno.

Mi sdraio con la schiena contro il parapetto e mi unisco al coro di silenzio, entrando a far parte di quella grande orchestra che riproduce il sottofondo sonoro del luogo. Qua in alto, sopra i palazzi, col vento che mi porta il calore dell’Africa, sono in parte me stesso e in parte tutto il resto del mondo. Alzo gli occhi: sopra di me capeggia qualche stella, parzialmente celata dal caos di luci che cancellano alla vista il firmamento. Rimango a guardare quelle poche superstiti, mentre rifletto sulla mia giornata e sul perché, a quest’ora, mi trovo qui anziché nel mio letto.

Ieri notte ho fatto un sogno. Un sogno che non volevo fare. Un sogno che non dovevo fare. Se chiudo le palpebre riesco a rivederlo perfettamente e riprodurlo come in una moviola, fermarlo, riavvolgerlo, farlo ripartire. Vedo una mano, quella maledettissima mano bianca dalle piccole dita, che mi cerca nel vuoto. Una voce che riesce a far risuonare una corda direttamente nel mio cuore, rievocando qualcosa che avevo messo da parte. Non vedo alcun paio d’occhi, per mia fortuna, ma sento delle labbra che mi cercano di loro iniziativa e che scopro di ricordare perfettamente. Per la prima volta, io non vado loro incontro. Poi quel fantasma si abbraccia alla mia schiena, mentre io, distaccato e solo per metà interessato, guardo altrove: verso la folla, verso la gente che mi passa accanto guardandomi con disappunto. Ed è proprio quella delusione a pervadere l’ambiente di cui sono il centro e che anch’io sento in cuor mio: mi deludo da solo per essere ancora seduto su quella panca onirica, con quel fantasma sulla schiena, con quella nota vibrante nel cuore, con gli occhi fissi verso il nulla. Poi quella delusione va oltre, fuoriesce dal sogno e raggiunge il mio Io cosciente. Eppure non mi va di essere ipocrita e lo ammetto: un po’ mi manca quel fantasma, che non vedo più da molti, molti mesi.

Eppure…

Richiudo gli occhi, incrocio le mani dietro la nuca, apro le braccia e inspiro a fondo: l’aria della notte, dello scirocco, delle stelle e del silenzio. Il respiro fluisce, portandomi quell’afa siciliana dritta nei polmoni, e improvvisamente mi ritrovo a sorridere perché mi rendo conto che il punto in cui sono è esattamente quello dove dovrei essere. Qui mi sento bene e, soprattutto, me stesso.
Non ce ne facciamo nulla della felicità, se non abbiamo la serenità.

So leave the memories alone
I don’t want to see
The way it is, as to how it used to be
Leave the memories alone, don’t change a thing
And I’ll hold you in my memory

Fuel – “Leave the Memories Alone”

Con l’animo sereno lascio il terrazzo, la città e il vento di scirocco alle mie spalle per andare a dormire.

Stanotte avevo semplicemente voglia di vedere il mare.

Sono passate quattro ore dalla mezzanotte e la città è ormai avvolta nel sonno: il silenzio permea le strade e il debole ronzio dei lampioni è l’unico suono che tenta, debolmente, di attraversare l’aria. Anche il vento è muto: le fronde degli alberi giacciono immobili, anch’esse immerse in un sonno profondo, e non si curano della mia auto che, unica e solitaria, percorre le strade alla blanda velocità di una manciata di chilometri orari. Come potrei andar più veloce, d’altronde? Mi trovo alla presenza del mondo addormentato, pallido sotto le stelle e vulnerabile come non mai. Lo guardo dormire, trattenendo il fiato come per paura di svegliarlo mentre guardo il suo petto alzarsi e abbassarsi seguendo il respiro del pianeta.
È a quel punto che decido che non voglio tornare a casa.
Giro il volante e imbocco un viale alberato, scivolo silenziosamente tra le strade e, infine, mi rendo conto che ho una voglia assurda di vedere il mare. Si, alle quattro del mattino di un venerdì in pieno inverno.

Ho sempre avuto un sommo rispetto verso coloro i quali riescono a condurre una vita all’insegna della logica e trovo che essa sia una facoltà da cui non si può prescindere nella vita, ma trovo che la totale mancanza di irrazionalità privi l’uomo di una parte della sua natura, quello strato emotivo da cui sembra essere più facile trarre la felicità: se si smette per un istante di guardare al mondo con gli occhi del matematico, vedendolo come un’insieme ben definito di leggi e di cause ed effetti, e si inizia invece a trovare grazia nei dettagli irrilevanti, come si può non rimanere meravigliati di qualcosa che abbiamo ogni giorno sotto agli occhi senza accorgercene, ovvero la pura essenza delle cose?

Insomma, avvolto dai pensieri attraverso tutta la città e vado oltre, fino alla spiaggia. Apro i finestrini per far entrare l’aria salubre e ghiacciata delle ore che precedono l’alba e già mi godo il suo preludio fatto di sciabordii d’onde e versi di gabbiani insonni. Trovo uno spiazzo e mi fermo, quindi scendo dall’auto e mi arrampico sulla balaustra in ferro, sedendomi in direzione del grande blu, stringendomi nella giacca.

Il mare, stanotte, è meraviglioso.

AspranotteIl vento freddo carezza la superficie d’acqua, sollevandola giusto il necessario perché questa, al contatto con la riva, si scomponga in schiuma bianca che tenta di protendersi verso la terraferma prima di venire trascinata indietro con decisione. Una volta, due volte, tre volte. Sembra quasi che l’acqua stia vivendo una vita all’insegna della fuga, come se passasse la sua intera esistenza a cercare di raggiungere la spiaggia e che, infine, vi si aggrappasse con tutte le sue forze solo per venire tirata indietro per le caviglie dal resto dell’oceano.
Alzo gli occhi: l’orizzonte si confonde nel blu della notte, mescolando mare e cielo, e non so più dire quale delle due sto guardando in un determinato momento. Volgo il capo a destra e a manca e scorgo le luci del lungomare della città, completamente deserto. Poco più in basso, sulla rena, alcuni pescatori avanzano verso le logore barche di legno, preparandosi a prendere il largo. In tutto il resto del mondo, solo il silenzio. L’aria salmastra mi investe e mi riempie le narici, donandomi un rassicurante senso di conforto. Eccolo, il respiro della Terra. È questo, il lento inspirare ed espirare che proviene direttamente dal cuore del mondo.

Nel frattempo, penso. Arriva quel momento in cui tutto cambia e lo capisci non perché muta l’evidenza, bensì poiché è l’inevidenza quella palesemente alterata. Non reagisci più allo stesso modo, non subisci i colpi come facevi una volta, e ti domandi come si siano allineati gli ingranaggi della vita, l’orologeria della propria esistenza. Ma è proprio per questo che, inconsciamente, forse mi sono spinto sino al limite dell’oceano: per ricordarmi quanto piccoli siano i tic tac di quelle lancette di fronte all’immensità dell’universo.

Non so dire quanto tempo sono rimasto seduto su quella ringhiera di ferro rovinata dal sale. Forse mezz’ora, forse di più. Il profumo e il suono delle onde mi rilassano e mi placano la mente accelerata, sincronizzando i miei pensieri con i loro ritmi placidi e tranquilli. Non c’è alcun domani, nè alcun passato: vi è solo il momento presente e vi assicuro che me lo sto godendo in pieno, in un modo talmente irrazionale e illogico da riempirmi lo spirito. È proprio questo il guaio della logica: ad ascoltare lei, scendere in spiaggia alle quattro del mattino, in pieno inverno, nel bel mezzo della settimana, è stato uno dei gesti più stupidi, irresponsabili e irragionevoli che potessi fare. Se l’avessi ascoltata, sarei tornato a casa e mi sarei andato a coricare, terminando la giornata e risvegliandomi il mattino dopo. Invece non l’ho fatto e ho creato qualcosa di eterno: un ricordo. Non fraintendetemi: sono un estimatore della logica, d’altronde sono un ingegnere informatico e questa è una professione che si basa interamente sugli schemi mentali. Ogni tanto, però, credo sia un bene concederci di fuggirne per andare ad esplorare le infinità dell’animo umano che, credetemi, di sensato hanno ben poco.

Noi scrittori siamo completamente fuori di testa.
Ma al mare, stanotte, non importa.

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