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Vento di scirocco

img_1113Eccomi qui, ancora una volta, di fronte a me stesso.

Sono le due del mattino e, giustamente, non riesco a prendere sonno. È così che decido di salire in terrazza, vestito come sono, e sedermi contro la notte ad ascoltare il silenzio. Sotto di me, la città si stende ai miei piedi: le strade sono deserte e neanche un gatto o un cane ne animano gli anfratti rischiarati dai lampioni messi in fila. I palazzi sono muti e dalle poche finestre ancora illuminate non provengono che suoni attenuati, nel rispetto della notte. Con le gambe penzoloni di fronte a me, sposto la vista in lungo e in largo, ammirando la maestosità di questo incantesimo millenario che, giornalmente, mette a riposo l’arteria pulsante e vibrante di vita che è la città. Stanotte la temperatura è abbastanza alta e soffia un forte vento di scirocco, caldo e arido, che mi godo in pieno.

Mi sdraio con la schiena contro il parapetto e mi unisco al coro di silenzio, entrando a far parte di quella grande orchestra che riproduce il sottofondo sonoro del luogo. Qua in alto, sopra i palazzi, col vento che mi porta il calore dell’Africa, sono in parte me stesso e in parte tutto il resto del mondo. Alzo gli occhi: sopra di me capeggia qualche stella, parzialmente celata dal caos di luci che cancellano alla vista il firmamento. Rimango a guardare quelle poche superstiti, mentre rifletto sulla mia giornata e sul perché, a quest’ora, mi trovo qui anziché nel mio letto.

Ieri notte ho fatto un sogno. Un sogno che non volevo fare. Un sogno che non dovevo fare. Se chiudo le palpebre riesco a rivederlo perfettamente e riprodurlo come in una moviola, fermarlo, riavvolgerlo, farlo ripartire. Vedo una mano, quella maledettissima mano bianca dalle piccole dita, che mi cerca nel vuoto. Una voce che riesce a far risuonare una corda direttamente nel mio cuore, rievocando qualcosa che avevo messo da parte. Non vedo alcun paio d’occhi, per mia fortuna, ma sento delle labbra che mi cercano di loro iniziativa e che scopro di ricordare perfettamente. Per la prima volta, io non vado loro incontro. Poi quel fantasma si abbraccia alla mia schiena, mentre io, distaccato e solo per metà interessato, guardo altrove: verso la folla, verso la gente che mi passa accanto guardandomi con disappunto. Ed è proprio quella delusione a pervadere l’ambiente di cui sono il centro e che anch’io sento in cuor mio: mi deludo da solo per essere ancora seduto su quella panca onirica, con quel fantasma sulla schiena, con quella nota vibrante nel cuore, con gli occhi fissi verso il nulla. Poi quella delusione va oltre, fuoriesce dal sogno e raggiunge il mio Io cosciente. Eppure non mi va di essere ipocrita e lo ammetto: un po’ mi manca quel fantasma, che non vedo più da molti, molti mesi.

Eppure…

Richiudo gli occhi, incrocio le mani dietro la nuca, apro le braccia e inspiro a fondo: l’aria della notte, dello scirocco, delle stelle e del silenzio. Il respiro fluisce, portandomi quell’afa siciliana dritta nei polmoni, e improvvisamente mi ritrovo a sorridere perché mi rendo conto che il punto in cui sono è esattamente quello dove dovrei essere. Qui mi sento bene e, soprattutto, me stesso.
Non ce ne facciamo nulla della felicità, se non abbiamo la serenità.

So leave the memories alone
I don’t want to see
The way it is, as to how it used to be
Leave the memories alone, don’t change a thing
And I’ll hold you in my memory

Fuel – “Leave the Memories Alone”

Con l’animo sereno lascio il terrazzo, la città e il vento di scirocco alle mie spalle per andare a dormire.

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Stanotte avevo semplicemente voglia di vedere il mare.

Sono passate quattro ore dalla mezzanotte e la città è ormai avvolta nel sonno: il silenzio permea le strade e il debole ronzio dei lampioni è l’unico suono che tenta, debolmente, di attraversare l’aria. Anche il vento è muto: le fronde degli alberi giacciono immobili, anch’esse immerse in un sonno profondo, e non si curano della mia auto che, unica e solitaria, percorre le strade alla blanda velocità di una manciata di chilometri orari. Come potrei andar più veloce, d’altronde? Mi trovo alla presenza del mondo addormentato, pallido sotto le stelle e vulnerabile come non mai. Lo guardo dormire, trattenendo il fiato come per paura di svegliarlo mentre guardo il suo petto alzarsi e abbassarsi seguendo il respiro del pianeta.
È a quel punto che decido che non voglio tornare a casa.
Giro il volante e imbocco un viale alberato, scivolo silenziosamente tra le strade e, infine, mi rendo conto che ho una voglia assurda di vedere il mare. Si, alle quattro del mattino di un venerdì in pieno inverno.

Ho sempre avuto un sommo rispetto verso coloro i quali riescono a condurre una vita all’insegna della logica e trovo che essa sia una facoltà da cui non si può prescindere nella vita, ma trovo che la totale mancanza di irrazionalità privi l’uomo di una parte della sua natura, quello strato emotivo da cui sembra essere più facile trarre la felicità: se si smette per un istante di guardare al mondo con gli occhi del matematico, vedendolo come un’insieme ben definito di leggi e di cause ed effetti, e si inizia invece a trovare grazia nei dettagli irrilevanti, come si può non rimanere meravigliati di qualcosa che abbiamo ogni giorno sotto agli occhi senza accorgercene, ovvero la pura essenza delle cose?

Insomma, avvolto dai pensieri attraverso tutta la città e vado oltre, fino alla spiaggia. Apro i finestrini per far entrare l’aria salubre e ghiacciata delle ore che precedono l’alba e già mi godo il suo preludio fatto di sciabordii d’onde e versi di gabbiani insonni. Trovo uno spiazzo e mi fermo, quindi scendo dall’auto e mi arrampico sulla balaustra in ferro, sedendomi in direzione del grande blu, stringendomi nella giacca.

Il mare, stanotte, è meraviglioso.

AspranotteIl vento freddo carezza la superficie d’acqua, sollevandola giusto il necessario perché questa, al contatto con la riva, si scomponga in schiuma bianca che tenta di protendersi verso la terraferma prima di venire trascinata indietro con decisione. Una volta, due volte, tre volte. Sembra quasi che l’acqua stia vivendo una vita all’insegna della fuga, come se passasse la sua intera esistenza a cercare di raggiungere la spiaggia e che, infine, vi si aggrappasse con tutte le sue forze solo per venire tirata indietro per le caviglie dal resto dell’oceano.
Alzo gli occhi: l’orizzonte si confonde nel blu della notte, mescolando mare e cielo, e non so più dire quale delle due sto guardando in un determinato momento. Volgo il capo a destra e a manca e scorgo le luci del lungomare della città, completamente deserto. Poco più in basso, sulla rena, alcuni pescatori avanzano verso le logore barche di legno, preparandosi a prendere il largo. In tutto il resto del mondo, solo il silenzio. L’aria salmastra mi investe e mi riempie le narici, donandomi un rassicurante senso di conforto. Eccolo, il respiro della Terra. È questo, il lento inspirare ed espirare che proviene direttamente dal cuore del mondo.

Nel frattempo, penso. Arriva quel momento in cui tutto cambia e lo capisci non perché muta l’evidenza, bensì poiché è l’inevidenza quella palesemente alterata. Non reagisci più allo stesso modo, non subisci i colpi come facevi una volta, e ti domandi come si siano allineati gli ingranaggi della vita, l’orologeria della propria esistenza. Ma è proprio per questo che, inconsciamente, forse mi sono spinto sino al limite dell’oceano: per ricordarmi quanto piccoli siano i tic tac di quelle lancette di fronte all’immensità dell’universo.

Non so dire quanto tempo sono rimasto seduto su quella ringhiera di ferro rovinata dal sale. Forse mezz’ora, forse di più. Il profumo e il suono delle onde mi rilassano e mi placano la mente accelerata, sincronizzando i miei pensieri con i loro ritmi placidi e tranquilli. Non c’è alcun domani, nè alcun passato: vi è solo il momento presente e vi assicuro che me lo sto godendo in pieno, in un modo talmente irrazionale e illogico da riempirmi lo spirito. È proprio questo il guaio della logica: ad ascoltare lei, scendere in spiaggia alle quattro del mattino, in pieno inverno, nel bel mezzo della settimana, è stato uno dei gesti più stupidi, irresponsabili e irragionevoli che potessi fare. Se l’avessi ascoltata, sarei tornato a casa e mi sarei andato a coricare, terminando la giornata e risvegliandomi il mattino dopo. Invece non l’ho fatto e ho creato qualcosa di eterno: un ricordo. Non fraintendetemi: sono un estimatore della logica, d’altronde sono un ingegnere informatico e questa è una professione che si basa interamente sugli schemi mentali. Ogni tanto, però, credo sia un bene concederci di fuggirne per andare ad esplorare le infinità dell’animo umano che, credetemi, di sensato hanno ben poco.

Noi scrittori siamo completamente fuori di testa.
Ma al mare, stanotte, non importa.

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